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 2023  marzo 04 Sabato calendario

Il manifesto di Messina Denaro

A dicembre 2013, in una delle tante operazioni di polizia contro i fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, finirono in carcere anche la sorella Patrizia e il nipote prediletto, Francesco, figlio dell’altra sorella Rosalia. Due arresti che fecero infuriare il boss all’epoca latitante già da vent’anni, il quale inviò un messaggio di solidarietà ai due parenti neo-detenuti, proprio tramite Rosalia. Quella lettera rappresenta per gli inquirenti un vero e proprio «manifesto di Cosa nostra»: un proclama dal sapore ideologico-politico che in qualche modo è pure «una chiamata di correità» nei confronti dei destinatari.
Per l’ultimo capomafia stragista rappresentava invece un’esortazione d’orgoglio a sostegno di chi proteggeva la sua invisibilità. «Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto, lo ritengo un onore. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana», si lamentava il boss, denunciando una sorta di razzismo anti-mafioso; visione che sfocia subito in una rivendicazione di genuina appartenenza non malavitosa ma quasi politica: «Siamo diventati una etnia da cancellare, eppure siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese poi romano che non riconosciamo».
L’orgoglio isolano si mescola a quello mafioso, e l’indipendentesmo di antiche radici banditesche, dai tempi di Salvatore Giuliano, viene preso a pretesto per dichiararsi maltrattati, reclamare diversità e pretendere rispetto: «Siamo siciliani e tali volevamo restare. Hanno costruito una grande bugia per il popolo, noi il male loro il bene, hanno affamato la nostra terra con questa bugia». Del resto la linea politica della mafia corleonese aveva portato, nel 1993-94, al progetto di un partito indipendentista che doveva chiamarsi Sicilia Libera, sponsorizzato da Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina. Magari senza ambizione partitiche, dieci anni dopo Messina Denaro sembrava voler proseguire su quel filone per galvanizzare il suo popolo, che in quel momento (come oggi) comprendeva un bel pezzo di famiglia d’origine chiuso in galera: «Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e donne che soffrono per questa terra, si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciar passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza». Con un finale da comizio di un leader: «Questo siamo ed un giorno, ne sono convinto, tutto ciò ci sarà riconosciuto, e la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita».
Gli appunti di Matteo conservati da Rosalia – chiamata «Rosetta» per le comunicazioni familiari, e con il nome in codice «Fragolone» per trasmettere quelli che per gli inquirenti sono «ordini mafiosi» – accumulano una serie di pensieri del boss che svelano la sua filosofia di vita, in linea con le convinzioni para-politiche. Come questo: «Ho conosciuto tante persone coraggiose con le pecore e pecore con i coraggiosi. Ho sempre disprezzato questo modo di vivere. Che schifo!». E poi qualche «regola di vita», come quella scolpita a maggio 2014: «Non si deve mai ritornare da una persona dalla quale ci siamo allontanati definitivamente... Ho pokissime regole di vita, e questa è una», scritta con la k al posto del «ch», alla maniera dei giovani.
Altra regola dettata in precedenti lettere intercettate dagli investigatori era quella di distruggere (meglio bruciandoli, per non lasciare alcuna traccia) i «pizzini» inviati e ricevuti, alla quale però la sorella non ha obbedito. Provocando la cattura del fratello, se è vero che l’operazione è nata proprio da un appunto sulla malattia trovato nascosto in casa della donna. In quell’occasione i carabinieri erano entrati per mettere microspie e telecamere in casa della donna, argomento sul quale Matteo aveva inviato a Rosalia precise raccomandazioni per evitare il pericolo di essere ascoltata e ripresa. Utilizzando un «tecnicismo lessicale – sospettano i pubblici ministeri – che fa senza dubbio ipotizzare il potenziale coinvolgimento di appartenenti alle forze dell’ordine o di specialisti forniti di uno specifico know how nel settore».
Le raccomandazioni del ricercato, che sapeva come la sorella fosse una «pista» seguita dagli investigatori per tentare di arrivare a lui, si mescolavano alle preoccupazioni per la sua incolumità: «Ti devi accertare se sono telecamere o cassette di rilancio, e questo lo puoi capire se c’è il buco o meno. Se non ti convinci chiami un elettricista... Se invece te la puoi sbrigare tu senza l’elettricista è meglio, ma non prendere la corrente, ti prego, usa sempre pinze con manici isolanti e i fili toccali sempre ad uno ad uno, mai toccarne due assieme». In ogni caso bisognava sbarazzarsi di tutto: «Se siano telecamere o siano cassette di rilancio distruggi tutto già da ora».
In un’altra lettera datata maggio 2022, il boss già malato e in cura alla clinica palermitana La Maddalena ordina alla sorella di contattare un signore indicato come «Parmigiano», per farsi consegnare 40.000 euro: «Devi parlarci subito, appena ricevi questa mia, e gli dai 3 mesi di tempo, lui in questi 3 mesi ti deve mandare questi 40 mila in piccole dosi, ma a settembre deve essere tutto concluso. Deve fare dosi da 5 mila euro e ogni volta li dà a Fragolina... Fragolina ogni volta che avrà la dose di 5 mila la darà a te ma in dosi ancora più piccole, cioè di 2.500 euro. Ti ci vorrà più tempo ma è il modo più sicuro... Quindi parla al Parmigiano e gli spieghi il tutto, digli che non può dire di no perché c’è una situazione di bisogno, digli che 40 mila non cambiano la vita delle persone».
Secondo gli inquirenti «Parmigiano» dovrebbe essere «un grosso imprenditore certamente in affari con Cosa nostra». Perché gli affari erano comunque il core business di Matteo Messina Denaro. Al di là di manifesti politici e regole di vita.