Corriere della Sera, 5 marzo 2023
Biografia di Gabriel Garko raccontata da lui stesso
L’ultima fan invasata, convinta di poter diventare la sua nuova fidanzata, gli è capitata nei giorni scorsi. «Diceva di essere Marilyn Monroe e si era piantata davanti a casa – racconta Gabriel Garko, che abita in una villa a Zagarolo, vicino Roma —. Minigonna, tacchi a spillo e tette di fuori, non voleva andarsene e una volta è riuscita persino a entrare dentro casa. Sono riuscito a farla uscire con le buone maniere, ma poi ho dovuto chiamare i carabinieri, perché un giorno mi si è addirittura buttata sotto le ruote dell’auto... una matta... era diventata pericolosa e non mollava!».
Le succede spesso di essere assediato dagli ammiratori?
«Purtroppo sì e, oltretutto, non è tanto facile scovare la mia abitazione... bisogna conoscere bene la zona e venirci apposta. Cerco di essere sempre disponibile con loro, ma c’è un limite a tutto, non posso accettare l’invasione della mia vita privata, diventare il bersaglio di gente invasata: è una privazione della libertà».
Il successo è una prigione dorata?
«In passato l’ho vissuto come tale: una volta, vedendo la mia immagine sulla copertina di una rivista, mi sono addirittura spaventato. Ma ormai mi sento più libero. Oggi le persone sui social vendono la loro vita che è finta. Lo star system vende sogni e, se non sei molto equilibrato e la tua vita non è serena, si vive male, perché devi nascondere la tua vera identità interiore, cosa che ho fatto anche io per anni. Ho tante volte interpretato personaggi che non avevano nulla a che fare con me e il dover restare sempre nascosto non è facile. Il lavoro però mi ha fortificato».
Talmente fortificato che a «Ballando con le stelle» si è rotto prima un braccio e poi una gamba...
Ride di cuore. «Sono un tipo atletico, ma ho sempre fatto un tipo di allenamento che non ha nulla a che vedere con la danza: i ballerini hanno un genere di muscolatura diversa dalla mia che, negli allungamenti, rischia di strapparsi... quello che è accaduto a me. Comunque comincio a stare meglio: il braccio sto iniziando a muoverlo e per quanto riguarda la gamba mi muovo ancora con le stampelle, ne avrò fino ad aprile...».
Finalmente libero e fortificato anche da quando ha fatto il coming out riguardo alla sua omosessualità?
«Preciso subito che non sono molto d’accordo col coming out: la vera normalità ci sarà quando non sarà più necessario doverlo fare. Innanzitutto, non è che tutti devono sapere i fatti tuoi, non è assolutamente giusto che una persona debba confessare pubblicamente la sua omosessualità solo perché la società impone che tutti devono essere eterosessuali. E se il mondo fosse al contrario? E se gli etero dovessero fare coming out?».
Uno dei personaggi da lei interpretato con successo è stato proprio Rodolfo Valentino...
«Eh già... e all’epoca sua, l’ambiguità sessuale era un problema davvero serio. E pensare che è stato un’icona, il latin lover per eccellenza e, quando è morto, le donne si sono suicidate per lui...».
I suoi genitori l’hanno lasciata libero di dichiarare la sua verità?
«Assolutamente sì. Hanno sempre saputo la mia verità, erano molto evoluti, non erano bigotti, non mi hanno trasmesso dei tabù e sono sempre stati miei complici. Quindi credo che, se in una famiglia normale padre e madre dicessero ai figli che esistono l’uomo etero, quello gay, la donna lesbica, il trans... eccetera, tra vent’anni non ci sarebbero più problemi nel dichiararsi serenamente in un modo o nell’altro».
E lei, tempo fa, ha anche espresso il desiderio di diventare padre. Sarebbe d’accordo con la maternità surrogata, il cosiddetto «utero in affitto»?
«No, non vorrei mettere al mondo una nuova vita, semmai sarebbe bello adottare un bambino, per dagli la possibilità di una vita migliore e, per esempio, non capisco per quale motivo i single non possano assumere questo ruolo, oppure una famiglia arcobaleno. L’importante è che siano delle brave persone e che possano assicurare la giusta, dovuta dignità a un orfano. Però... aggiungo che, pur avendo pensato spesso a compiere questo passo, oggigiorno forse non mi sento più motivato a diventare padre: non mi piace la società in cui viviamo e detesto l’accanimento morboso che impazza sui social. Oggi più che mai, i giovani devono poter contare su una famiglia sana alle spalle, per difendersi dal mondo virtuale, dove tutti si sentono in diritto di giudicare tutti».
Una famiglia come la sua?
«Sì, ho avuto questa fortuna: l’ho definita una famiglia da Mulino Bianco, allegra, piena di energia, armonia, senza pregiudizi, con tanto amore e tanta libertà di pensiero. Inoltre con tre sorelle adorabili».
Ma da chi o da dove è nata la sua passione per il cinema, teatro, televisione...
«Al cinema, quando da bambino vidi il film King Kong. Mi spaventò a morte, tanto che mi nascosi sotto i sedili, però poi ho capito che quella era finzione e non dovevo aver paura. Quindi pensai: com’è figo rappresentare qualcosa che non esiste e renderlo reale. Il cinema è evasione dalla vita di tutti i giorni e, come attore, il poter vivere tante vite diverse è affascinante. Tuttavia, negli anni, ho capito che l’importante è riuscire a vivere la tua propria vita, non devi perderla di vista. Il rischio del nostro lavoro è di restare su un piedistallo che non ha nulla a che fare con la realtà».
Una realtà che, quando lei lavorava col produttore Alberto Tarallo, doveva negare?
«Non voglio nominarlo, perché è in corso un’inchiesta. Posso solo dire che nei primi anni Novanta non si potevano pubblicamente dire certe cose sulla propria sfera privata».
Nessun bel ricordo degli anni in cui con la produzione Ares ha realizzato tanti progetti?
«Lavorativamente parlando sono stati anni costruttivi, ma non posso tornare indietro e non so se, magari, avrei potuto fare anche altro, accettando altre proposte. Non sono abituato a sputare nel piatto dove ho mangiato e comunque ho lavorato al meglio delle mie possibilità. Oggi, cinquantenne, mi sento libero nelle mie scelte».
E pensare che ha iniziato la carriera a 17 anni diretto dal grande Dino Risi, nella miniserie-tv «Vita coi figli», a fianco di attori come Giancarlo Giannini, Monica Bellucci...
«Avevo una particina, interpretavo il fidanzatino della figlia di Giannini ed ero terrorizzato. Ma Risi era un uomo molto paziente e mi ha insegnato come studiare bene la parte. Però, quando poi mi sono rivisto nel film, mi son detto: che cane che ero!».
Però poi è stato diretto sul grande schermo da Franco Zeffirelli e, in teatro, persino da Luca Ronconi...
«Due maestri eccelsi e oltretutto grazie a loro ho lavorato con attori sublimi».
Due registi molto severi?
«Franco era affettuosissimo, ma se si arrabbiava venivano giù i muri. Anche Luca non scherzava, ma una volta mi fece morir dal ridere. Mentre eravamo alle prove per Quel che sapeva Maisie, dove recitavo con Mariangela Melato e Anna Maria Guarnieri, a un certo punto mi blocco e gli dico: ma io che ci sto a fare tra due attrici come loro? Luca mi venne vicino e mi sussurrò ridacchiando: stai tranquillo, Gabriel, perché chi verrà a teatro per assistere allo spettacolo di Melato e Guarnieri, si becca te; chi verrà per vedere te, si becca noi!».
Una carriera che dura da circa trent’anni. L’errore più grande commesso?
«Quando mi proposero di andare negli Stati Uniti per intraprendere un percorso di lavoro nel cinema americano, non ho avuto il coraggio di trasferirmi, non ci sono andato. Sono quelle che si dicono le sliding doors... e non me lo perdono».
La più grande paura?
«L’ignoranza della gente, non quella culturale, ma quella della grettezza che sfocia puntualmente nella mancanza di rispetto».
Perché ha cambiato il suo nome e cognome: da Dario Oliviero a Gabriel Garko? Mancanza di rispetto nei riguardi della sua famiglia?
«Al contrario! Ho compiuto questa scelta proprio perché, quando ho iniziato questo mestiere non volevo mettere in mezzo la famiglia d’origine. E comunque Garko nasce da Garchio, un cognome che ha a che fare con mia nonna materna».
Però esisteva già l’attore Gianni Garko...
«Che infatti mi fece causa: secondo lui non potevo usare il suo stesso cognome, che anche nel suo caso era un nome d’arte. Finimmo in tribunale, ma l’ho avuta vinta io».
Rimessi a posto braccio e gamba, dove la rivedremo come attore e non come ballerino?
«Per il momento non come attore, ma come autore in libreria. Eh sì, perché sto per pubblicare il mio primo romanzo, Il giardino del tiglio, dove racconto la storia di un anziano professore universitario che si accorge di essere sulla soglia di una brutta malattia, l’Alzheimer... e capisce che è bene non aspettare troppo per esprimere i propri sentimenti alle persone cui si vuol bene».