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 2023  marzo 05 Domenica calendario

Riunioni, pressioni, attesa: nessuno voleva la zona rossa

«La crescita di questa epidemia è rapidissima. Non abbiamo più letti. I 17 posti in terapia intensiva sono occupati. I cento destinati ai malati Covid-19 sono tutti occupati». È il 29 febbraio 2020. Marco Rizzi, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, lancia il suo appello disperato. L’epidemia sta già andando fuori controllo, medici e infermieri implorano chiusure. Ma nessuno li ascolta.
Politici e imprenditori sono scatenati. La sera precedente il sindaco Beppe Sala e il governatore del Lazio Nicola Zingaretti sono stati promotori dell’aperitivo sui Navigli perché #Milanononsiferma, Giorgio Gori è andato a cena da Mimmo spinto dall’iniziativa «Bergamo is running» della Confindustria locale che spiega di temere «per il destino 376 aziende con un fatturato complessivo di 850 milioni di euro annui». Non si può chiudere, niente «zone rosse». Intanto il virus corre. I verbali, le relazioni di servizio, le circolari relative a quanto accadde dal 27 febbraio al 7 marzo quando si decise il lockdown in tutta Italia ricostruiscono in maniera dettagliata la catena di errori, sottovalutazioni, omissioni che trasformarono quell’area del Paese in un focolaio capace di provocare migliaia di morti. Mostrano lo scontro – a tratti durissimo – tra gli scienziati che invocavano chiusure e i politici determinati a non cedere alle pressioni per l’istituzione della «zona rossa». Ma basta questo per portarli in un’aula di giustizia? I comportamenti di chi doveva gestire l’emergenza e adottare misure adeguate sono materia da processo penale? Sarà un giudice a dover stabilire se il castello di accuse costruito dalla Procura di Bergamo regge. E dovrà farlo partendo da un documento che il Corriere aveva già rivelato e che adesso – allegato agli atti di indagine – svela anche il nome di tutti i protagonisti.
È il pomeriggio del 3 marzo 2020: intorno a un tavolo ai piani alti di Regione Lombardia si svolge una riunione tra il ministro Roberto Speranza volato a Milano, il governatore Attilio Fontana, l’assessore Giulio Gallera, il direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo e gli epidemiologi Vittorio De Micheli e Danilo Cereda. Durante l’incontro si parla di Alzano e di Nembro. Un audio – già pubblicato dal Corriere e adesso allegato agli atti con i nomi di tutti i protagonisti – dà conto della conversazione sull’impennata dei contagi e la necessità di istituire una «zona rossa».
Speranza: Diciamo, tutto quello che abbiamo fatto finora non porta nessun segnale minimo di contenimento, ancora zero…
Gallera: È presto, poi il dato è un po’ grezzo...
Speranza: Queste persone si potrebbero essere ammalate prima dell’inizio delle nostre misure, perché le misure le abbiamo messe in campo da una settimana…
Fontana: Dieci giorni.
Speranza: Ancora non vediamo…
Gallera: Esatto, esatto… Non vediamo, c’è solo la diffusione…
De Micheli: Però sentiamo la necessità che il clima di preoccupazione cresca un po’ più di quello che è stato, perché c’è molta sottovalutazione.
Gallera: Alzano e Nembro… Voi volevate fare… secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che sia perfettamente lì… però là abbiamo il secondo focolaio… sta crescendo e là non c’è la percezione perché chi abita lì… questi continuano a uscire, vanno in giro…

Speranza: Più si annuncia, più si scappa.
Gallera: Quindi bisognerebbe proprio… che ha fatto la proposta…
Speranza: Sì, sì, ci stanno ragionando… Appena rientro, provo…
Cereda: Al limite potrebbe arrivare anche oltre provincia di Lodi che ne ha 500. Quindi il focolaio è nato secondario, ma potrebbe diventare il peggiore della Lombardia. Mentre con la zona rossa… qualcosina…
Gallera: Non la città, la città ancora è abbastanza… è a 40, 50… Sono i due Comuni sopra…
Mentre il ministro Speranza torna a Roma, in provincia di Bergamo i malati e i morti si moltiplicano. Ma serviranno ancora sei giorni di rimpallo tra governo, Regione e Comitato scientifico per quella soluzione che in realtà manda in «zona rossa» tutta Italia. Proprio la sera del 3 marzo il Cts evidenzia come Alzano e Nembro «hanno fatto registrare ciascuno oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio». Per questo «propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “zona rossa” (di Codogno, ndr) al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue». Il 4 marzo, quando le vittime in Italia superano quota cento, il premier Giuseppe Conte firma un decreto per chiudere fino al 15 marzo università, scuole, teatri, cinema. Ma «sulla proposta relativa ai due Comuni della Provincia di Bergamo», chiede agli esperti «di acquisire ulteriori elementi per decidere se estendere la “zona rossa” a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso, estendere il regime all’intera Regione Lombardia e alle altre aree interessate».
Il coordinatore del Cts Silvio Brusaferro risponde il 5 marzo: «Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa». Il ministro della Salute Speranza ha predisposto una bozza di decreto, ma Conte non è convinto, vuole attendere ancora. Anche per questo il giorno dopo il premier va alla Protezione civile e incontra i componenti del Cts. Ma la fumata è ancora nera. Gli scienziati non convincono la politica, la linea è «superare la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa». Se ne discute ancora 12 ore e la situazione si sblocca alle 2 di notte del 7 marzo quando il premier annuncia la chiusura dell’Italia. Il decreto entrerà in vigore il 9, quindi dopo altre 48 ore. Alzano conta 55 contagiati, Nembro 107, la provincia di Bergamo 1.245, per tacere dei morti. Palazzo Chigi precisa che «le Regioni non sono mai state esautorate del potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti». Un modo per dire che se la Lombardia pensava davvero che la zona rossa di Alzano e Nembro andasse creata prima, avrebbe potuto farlo in piena autonomia, così avevano già fatto Lazio, Basilicata, Emilia-Romagna, con ordinanze limitate al territorio di specifici comuni.
L’atteggiamento dei politici durante tutta la pandemia è sempre stato orientato verso le riaperture con Salvini e Meloni che volevano far ripartire l’Italia, Franceschini i musei, Boccia le scuole, Calenda e Renzi che puntavano all’economia e Di Battista sottolineava come il cancro faccia più morti del Covid. Si sarebbe potuto fare molto di più per arginare il virus in quei giorni e anche nei mesi successivi: ma ogni misura di contenimento ha sempre sollevato scontri e proteste, con il risultato di rimandare le decisioni il più possibile. Alessandro Vespignani, fra i massimi esperti mondiali di modelli epidemiologici, la sintetizza così: «Dei leader politici hanno barattato le loro fortune elettorali con la salute pubblica dei cittadini». Allora, e purtroppo anche dopo.