La Stampa, 4 marzo 2023
Un’intervista inedita a Alberto Moravia
La scritta sulla cassetta audio dice che è l’ottobre 1984. La memoria racconta una tiepida giornata autunnale, ai piani alti di una bella palazzina di Lungotevere della Vittoria. Alberto Moravia ha 76 anni, i capelli bianchi ordinati all’indietro, le sopracciglia foltissime, la voce afona, un’aria severa. Indossa un maglione azzurro, i jeans, le Clarks ed è accomodato, dritto come un fuso, su un divano chiaro che lo abbraccia con affetto. Un cane abbaia lì di presso. «Che voi, te?», lo apostrofa il grande scrittore e quello tace obbediente come se non aspettasse altro. La stessa cosa pensa probabilmente dei due giovani giornalisti accolti nel salotto di casa. Dal mese di giugno, l’autore de Gli Indifferenti è anche eurodeputato, lo hanno eletto quale indipendente nelle liste del partito comunista, il voto del sorpasso dopo il tragico addio a Enrico Berlinguer.
Si parla di tutto, e ieri pare oggi, in una conversazione sinora inedita. Di romanzi e romanzieri, del Nobel negato, dell’Italia ingovernabile, di giornali e pace, del volume che sta ultimando e dell’inverno nucleare che lo spaventa. Prima di cominciare, però, una cosa deve essere messa in chiaro. «Si sieda sul tavolo - sussurra il signor Pincherle -, si metta più vicino perché sono anche un po’ sordo».
Lei è stato candidato (17 volte, ndr) al premio Nobel.
«Non si è mai candidati al premio Nobel. Succede automaticamente perché si è uno scrittore noto. Si è sempre più noti e sempre più candidati. Non sono io che mi iscrivo o che sono candidato. Niente...».
Certo. Ma lei…
«Sì! Ero fra gli scrittori che poteva vincere il Nobel».
E cosa significa, per lei e per la letteratura italiana, essere considerato per il Nobel?
«Non lo so. Credo non abbia alcun significato. Il valore letterario è indipendente dai premi. Il Nobel ha premiato grandi scrittori ma non ne ha premiati degli altri (altrettanto grandi). Proust, tanto per dirne uno. È una distinzione, che certamente è utile anche per il Paese da cui lo scrittore proviene. Dal punto di vista patriottico è una cosa positiva. Ma Sartre lo rifiutò, il premio».
Lo avrebbe accettato?
«Sì, certo, non avrei avuto ragione per rifiutare».
Le si ritiene il maggior scrittore vivente?
«Assolutamente no».
E chi è?
«Nessuno. Non c’è. Solo scrittori...».
Chi è il Manzoni di questo secolo?
«Non è un ragionamento che si può fare. Si deve partire dall’idea che, a un certo livello, gli scrittori sono tutti uguali. Cambiano i tempi. L’Italia, come del resto l’Inghilterra, la Francia e la Germania, ha avuto la letteratura più interessante nella prima metà del secolo».
Perché?
«È così. Prendiamo l’America. Nel primo dopo guerra c’erano Hemingway, Fitzgerald, Faulkner. Oggi gli scrittori sono molto minori. Lo stesso succede in Italia. Dall’inizio del Novecento agli anni Cinquanta, tanto per spaccare il secolo, abbiamo avuto una fioritura di scrittori notevole, poeti, narratori e saggisti. Non ci sono spiegazioni da dare».
Anche lei è cambiato dalla sua prima produzione alla seconda.
«No, sono uguale. Chi c’era prima, continua. Sono gli stessi. La Morante, ad esempio, ha cominciato prima degli anni Cinquanta e continua altrettanto bene. La grandezza di uno scrittore non è solo un criterio estetico o letterario. La letteratura non è una corsa di bicicletta».
Vero. Però c’è una critica che la descrive in discesa dopo Gli Indifferenti.
«Ognuno può dire quel che vuole».
L’hanno definita un testimone del suo tempo. Anche per i suoi articoli da giornalista...
«Non sono un giornalista. Sono uno scrittore che scrive sui giornali. Sui giornali scrivo racconti, delle cronache di inviato speciale dall’estero, anche quelle piuttosto letterarie. Il giornalismo non l’ho mai praticato».
C’è una differenza fra i due mestieri?
«Eccome! Sono professioni diverse, la letteratura e il giornalismo. Certo si può passare da una all’altro, Hemingway è un giornalista divenuto scrittore».
Due temi centrali dei suoi romanzi sono sesso e denaro. Vero?
«Io scrivo di quello che c’è».
Quali sono i suoi modelli letterari?
«Nessuno. Il mio modello è me stesso».
Non si identifica in nessun maestro?
«No».
Come si è scoperto narratore?
«A nove anni. Volevo fare lo scrittore. Era la mia ambizione».
Non doveva essere solo un’ambizione.
«Mi piaceva raccontare delle balle».
Lei però ha scavato molto nell’anima dell’uomo.
«Ho scavato nella mia».
Nella sua biografia?
«No. L’ho già detto. Io lavoro col materiale che ho. Quello che ho sottomano è me stesso, ma non c’entra l’autobiografia. C’entra l’esperienza generica. Cercherò di spiegarmi con un esempio».
Grazie.
«Un romanziere parla evidentemente solo delle cose che conosce. Ho scritto il romanzo La Ciociara. Ero stato sul fronte per un anno, nascosto dai tedeschi. Conoscevo la guerra. Questa è l’esperienza di fondo. Però i personaggi sono inventati. Non è autobiografia, che vuol dire raccontare i fatti propri».
Lei è stato candidato al Parlamento europeo per il Pci. Cosa accetta del marxismo?
«Non ha niente a che fare con la mia candidatura alle elezioni nelle liste del partito comunista».
Lei si sente vicino al marxismo?
«No. (In lista) c’era anche Spinelli che non ha nulla a che fare col partito comunista».
Allora perché ha scelto il Pci?
«Ho accettato di apparire nelle liste come "indipendente". La parola non le dice niente?».
Certo.
«E allora? Ho accettato per fare campagna in favore del disarmo nucleare. Il partito comunista mi ha offerto la possibilità di parlarne in un luogo più risonante della mia casa privata, al Parlamento europeo. Il marxismo è tutta un’altra faccenda».
Quale?
«Le dirò che il marxismo è uno dei tanti strumenti conoscitivi che il mondo moderno offre a uno scrittore. Non più importante di altri. Non più della psicanalisi».
Che significa essere pacifisti?
«Fare il possibile perché non avvenga la guerra. È una cosa molto ovvia».
Lo strumento letterario può servire?
«Ben poco. Se non a niente. L’influenza di uno scrittore di fronte agli uomini politici è nulla. Tutti gli scrittori possono urlare quel che vogliono sulla pace, ma le potenze nucleari la fanno lo stesso, la guerra, se gli pare».
Arriveremo a una guerra nucleare?
«Spero di no. E, in qualche modo, penso di no. L’umanità ha un forte istinto di sopravvivenza ed eviterà questa forma di suicidio».
Crede il progresso tecnologico possa distruggere la razza umana?
«Non è esatto. Gli scienziati devono far presente alla politica che la tecnologia va utilizzata per scopi pacifici.Oggi sappiamo che la guerra nucleare porterebbe all’inverno atomico, a un enorme tendone di polvere e detriti che impedirebbe al sole di raggiungere la terra. Tutte le culture e tutti gli animali perirebbero. E gli uomini non distrutti dalle bombe morirebbero di fame. Sarebbe la distruzione della Terra. Questa conoscenza la dobbiamo agli scienziati. Hanno fatto studi molto seri sugli effetti della bomba in senso meteorologico».
Lei parla dell’istinto di sopravvivenza. Ma se ci fosse un nuovo Hitler?
«In proporzione, le persone che vogliono uccidersi sono infinitamente meno di quelle che vogliono vivere. E all’arrivo di nuovo Hitler non ci penso, è una cosa impossibile da calcolare».
Per uno scrittore l’impegno politico è producente o controproducente?
«Controproducente. Perché è una perdita di tempo».
Sul serio?
«La politica è una professione. Un deputato vero è un professionista. Lo scrittore che vuole diventare un politico deve abbandonare il suo mestiere».
Come mai l’Italia non è un Paese governabile?
«È governabile limitatamente».
«Perché un Paese molto anarchico, gli italiani sono molto individualisti, la famiglia è più importante della società…. Ci sono mille ragioni».
Vuol dire che abbiamo bisogno di un capo?
«Assolutamente no. A che serve un capo?».
Ce n’è stato uno per vent’anni. Era osannato.
«Fu un disastro totale. Io, comunque, sono contro i capi. Non vedo cosa possano fare. Un Paese deve risolvere i problemi da sé».
I governi in Italia sono molto deboli.
«Sono l’espressione del Paese».
Dunque, se un governo è debole e corrotto è perché lo è società?
«In fondo, sì».
Dopo Berlinguer, sembra che il Pci stia tornando nei pressi dei socialisti. Le pare?
«È quello che vedono i giornali. Di questo non so niente. Io sono pochissimo politico, non sono un professionista. Un politico vero, pesando le parole e con un linguaggio particolarmente specialistico, direbbe più di me. Ma poi forse non lo capiremmo (ride)».
Lei ha però un punto di osservazione diverso, lei guarda dall’esterno.
«Lo scrittore ha un punto d’osservazione che in qualche modo non è fatto per la politica. L’artista persegue l’assoluto. Il politico persegue il relativo, il possibile. Se la politica persegue l’assoluto diventa Hitler, col disastro che ha combinato. L’artista è meno adatto a capire le possibilità della politica perché vorrebbe tutto e subito. L’artista persegue un risultato al disopra di tutto. In politica, "vediamo che si può fare…"».
Torniamo al romanzo. Che valore hanno i complessi freudiani nella letteratura.
«La psicanalisi fa parte della cultura moderna. Come il marxismo. Dicevamo "sesso e denaro". Rispondo "marxismo e psicanalisi"».
Con quali riflessi?
«Nella mia opera c’è da un lato l’attenzione per il fatto sociale, e dunque riguarda il "denaro". Dall’altra, per il fatto individuale. E il sesso è molto individuale».
Scavando dentro l’individuo, cosa ha trovato?
«Non un gran che. Quello che c’era. Uno scrittore non scava. È difficile dirlo, ma esprime dei sentimenti. La sua arte si fonda sulla sensibilità. L’artista va dall’esterno all’interno, il filosofo compie il cammino contrario. I personaggi sono delle forme del giudizio morale. Nel raccontarli, li giudico. Se non li giudicassi, non potrei formarli».
Ma sono una proiezione di Moravia o della società?
«Nell’Ottocento il rapporto era tra personaggio e società, oggi è tra il personaggio e sé stesso. Lo scrittore è sempre stato in rapporto con la sua realtà. Si può spiegare solo in termini sentimentali. Se diventa analisi, si entra sul terreno della sociologia e io non sono un sociologo».
Com’è lo scrittore, oggi? Debole o no?
«L’idea dello scrittore demiurgico era molto forte fra le due guerre. Gli scrittori hanno avuto momenti di grande potenza. Ma oggi hanno una posizione molto ridotta. Mi spiace molto, ma è così. Una fama come quella di Tolstoj non ce l’ha più nessuno».
Stiamo vivendo una crisi dell’editoria…
«Sono cose misteriose, la gente legge molto meno, in particolare in Italia. Siamo un Paese strano».
Lei è meno prolifico, in compenso.
«Sono stato molto fuori. L’altr’anno ho pubblicato un libro di racconti, La cosa, che ha avuto molto successo».
E adesso?
«Lavoro a un romanzo. Si chiama L’uomo che guarda. Tratta del rapporto fra un padre e un figlio».
Dissidio?
«Non lo posso dire, non è finito».
Quanto impiega a scrivere un libro?
«Non meno di tre anni»
E questo quando sarà pronto?
«Nell’ottantacinque».