La Stampa, 4 marzo 2023
Biografia di Ales Bialatski
Nel 2012, appena liberata dagli arresti domiciliari, la Nobel Aung San Suu Kyi era andata a Oslo a ritirare il suo premio, conferitole 21 anni prima, e aveva posato davanti ai fotografi con una foto di Ales Bialatski. Il leader dell’opposizione bielorussa all’epoca era in carcere, condannato a 4,5 anni, ed era stato candidato al Nobel per la pace. Il premio gli è stato assegnato nel 2022, e ieri il 60enne dissidente bielorusso ha conseguito un record: è il primo vincitore di un Nobel per la pace condannato alla prigione, per la precisione, a 10 anni di carcere per «contrabbando di denaro insieme a un gruppo organizzato» e «finanziamento delle proteste». Insieme a lui sono stati proclamati colpevoli altri tre esponenti della organizzazione Vyasna (primavera) con la quale Bialatski ha vinto il Nobel: il suo vice Valyantsin Stefanovich è stato condannato a 9 anni, Uladzimir Labkovich, giurista che ha fatto campagna per elezioni oneste, a 7 anni, e Dmitry Salauyov (processato in assenza) a 8 anni.
Condanne pesanti ormai abituali in Belarus, dove il non più ultimo dittatore d’Europa Aleksandr Lukashenko sta terrorizzando la protesta che nell’agosto del 2020 era sfociata in una rivoluzione popolare soffocata dai manganelli. Oggi, Vyasna conta in Belarus 1457 detenuti politici, ai quali vanno ad aggiungersi migliaia di attivisti fuggiti all’estero o costretti al silenzio dalle minacce del regime. Il caso di Bialatski però aveva fatto fino all’ultimo sperare che la repressione sarebbe stata meno pesante nei confronti di un uomo di fama internazionale: del resto, il comitato dei Nobel tiene conto del fatto che il premio è anche una sorta di protezione. Se Aleksandr Solzhenitsyn e Andrey Sakharov non fossero stati dei Nobel – il primo l’aveva ricevuto nel 1970 per la letteratura, il secondo nel 1975 per la pace – probabilmente invece di finire rispettivamente in esilio e al confino sarebbero stati chiusi in carcere. Ma i nuovi dittatori postsovietici non hanno le remore di immagine che aveva il Politburò di Brezhnev e Andropov: Lukashenko anzi considera il Nobel un aggravante, e il suo obiettivo è mostrare che chi viene sostenuto dalle democrazie occidentali deve essere punito, nonostante un coro di protesta contro la condanna emessa a Minsk che si è levato ieri dalle capitali europee, da numerose Ong e anche dal segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres.
Vyasna – che ha diviso il Nobel assegnato nell’ottobre scorso con il Centro delle libertà civili ucraino che indaga i crimini di guerra di Mosca e Memorial, la storica Ong russa messa al bando dal Cremlino – è nata nel 1996 per diventare una rete di assistenza ai detenuti politici e agli attivisti della protesta. Il «contrabbando di denaro organizzato» di cui sono stati accusati i dissidenti è proprio questo: Bialatski e i suoi collaboratori portavano legalmente piccole somme di contanti dalla Lituania, dove confluivano le donazioni alla protesta impossibili in patria. Nonostante il reato fosse apparentemente economico, gli imputati in aula sono stati tenuti in gabbia e in manette, come dei criminali pericolosi: un assaggio probabilmente di quello che li aspetta nel carcere. È un messaggio non solo per la protesta politica bielorussa, fiera di essere rimasta non violenta, ma anche per i «partigiani» che invece stanno insidiando sempre più insistentemente i militari russi dislocati in Belarus: proprio ieri sono uscite nuove testimonianze dell’ingente danno che sarebbe stato inflitto all’aereo-spia russo Beriev A-50, attaccato dai droni dei ribelli sulla pista della base militare di Nachulischy, non lontano da Minsk.
Per Svetlana Aleksievich, la scrittrice bielorussa insignita del Nobel per la letteratura e costretta a emigrare da Minsk dopo aver aderito al Comitato congiunto dell’opposizione, la condanna di ieri è «un passo verso la guerra civile». Quella guerra civile che anche Bialatski aveva scongiurato Lukashenko di fermare nel suo ultimo discorso prima della sentenza, constatando una profonda spaccatura della società bielorussa: «Una nuova generazione non si accontenta più della caserma sovietica», mentre «una parte della società... sta schiacciando e soffocando l’altra». Una divisione «che resterà con noi a lungo», e che richiede un dialogo, invece della violenza, soprattutto mentre «la stessa sovranità bielorussa è a rischio». Un’allusione esplicita a Vladimir Putin, del quale Lukashenko si dichiara l’unico alleato, pur non avendo per ora accettato di entrare in guerra contro l’Ucraina a suo fianco. Ma l’esercito russo scaglia i suoi attacchi dal territorio della Belarus, trasformata di fatto in una base militare russa, e molti oppositori parlano di «occupazione» e temono che prima o poi il dittatore di Minsk sarà costretto, pur di sopravvivere, a concedere al Cremlino la riunificazione con la Russia che la propaganda putiniana teorizza ormai apertamente. Il rischio di una annessione è stato citato ieri anche dalla moglie di Bialatski, Natalia Pinchuk, che ha invitato i belarussi a usare la loro lingua invece del russo per «distanziarsi dai vicini che vogliono considerarci loro territorio e hanno ambizioni imperiali».