la Repubblica, 5 marzo 2023
Stalin torna di moda
I settant’anni dalla morte di Stalin, scomparso il 5 marzo del 1953, non potevano cadere in un momento più propizio per la sua fortuna in patria. Perché con il regime putiniano il nome del dittatore sovietico sta godendo una clamorosa rinascita, dopo essere stato demolito dapprima da chi – come Krusciov e gli altri della cerchia che si autocelebrò con il XX congresso del PCUS – lo aveva affiancato nello sterminio del suo stesso popolo negli anni del Grande Terrore e poi da chi – come Gorbaciov e la generazione della perestrojka – aveva tentato di rinverdire l’edificio sovietico illudendosi di tornare ad una immaginaria “originalità leninista”.
Vladimir Putin, al contrario, ha legato il proprio regime a un’opera di metodico recupero dell’eredità politico- culturale dello stalinismo. E in particolare di quella stagione dello stalinismo, meno conosciuta in Occidente, che fu la più incisiva nel definire il profilo di potenza insieme geopolitica e morale a cui oggi Putin aspira per la sua Russia: la stagione che dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino alla morte del dittatore, dal 1945 al 1953, trasformò l’Unione sovietica da «patria della rivoluzione» qual era stata dopo il 1917 in una fortezza imperiale e xenofoba.
Dopo la vittoria sulla Germania, l’espansione territoriale verso Ovest, il controllo dell’Europa orientale e lo status di superpotenza mondiale non furono infatti gli unici cambiamenti di rilievo nel profilo dell’Unione Sovietica. Insieme a questi, all’interno del paese, il regime avviò una imponente operazione identitaria che prese le mosse dalle arti e della cultura per arrivare alla scienza e alla regolamentazione della vita privata. Il cosiddetto ždanovismo prese di mira ogni espressione artistica che fosse considerata contaminata da influenze straniere, travolgendo alcuni tra i più apprezzati scrittori sovietici dell’epoca: tra questi Anna Achmatova, la musa di Leningrado, che Ždanov si diceva incerto se considerare «una monaca o una puttana»; o l’umorista Michail Zoš?enko, la cui opera sarcastica «distillava veleno antisovietico». Le accuse insistevano sulla degenerazione “cosmopolitica” delle loro opere, e quindi sulla subalternità a canoni stilistici estranei al mondo sovietico. Ma dietro la polemica contro «i cosmopoliti senza patria» si riconosceva il profilo dell’antisemitismo, che divenne uno dei tratti dell’ultimo stalinismo e che si volse innanzitutto a colpire la memoria pubblica dello sterminio degli ebrei in terra sovietica. Tra gli obiettivi più esemplari vi fu il Comitato ebraico antifascista, costituito durante la guerra per raccogliere fondi e solidarietà all’interno della comunità ebraica internazionale per la difesa dell’Urss. Il suo presidente Solomon Michoels fu assassinato nel gennaio 1948 inscenando un incidente stradale. Dopo lo scioglimento del Comitato, con l’arresto dei suoi principali esponenti (successivamente fucilati con l’accusa di aver pianificato la separazione della Crimea dall’Urss per costituirvi uno Stato ebraico indipendente), si scatenò nel paese un’ondata di discriminazioni antisemite nei più diversi settori della vita pubblica.
L’apice della campagna contro i «cosmopoliti senza patria» fu toccato alla vigilia della morte di Stalin, nel gennaio del 1953, quando fu denunciata una congiura che sarebbe stata ordita da un gruppo di celebri medici (quasi tutti ebrei) ai danni delle principali personalità dello Stato sovietico. E mentre venivano introdotte leggi repressive e moralistiche nel campo della sessualità e della famiglia, con la criminalizzazione dell’omosessualità e la limitazione del diritto al divorzio e all’interruzione di gravidanza, lo sciovinismo xenofobo arrivò a surreali conseguenze in campo scientifico. Dall’oggi al domani venne proclamata la paternità russa su una serie di scoperte da tempo ritenute patrimonio dell’umanità (tra cui la radio, l’aeroplano, la trasmissione dell’elettricità e persino la bicicletta), mentre interi settori della scienza sovietica venivano devastati dall’improvviso predominio di pseudo- teorie sorrette solo dall’ostilità antioccidentale. Il caso più celebre fu quello di Trofim Lysenko, agrobiologo- ciarlatano che scatenò una campagna contro il carattere «borghese» della genetica in nome della trasmissibilità ereditaria delle modifiche indotte dall’uomo nelle colture agricole, con il risultato di indebolire ulteriormente un’agricoltura già colpita dalla crisi post-bellica.
Quello dell’ultima stagione staliniana fu l’innesto sul ceppo dell’ideologia sovietica di alcuni degli elementi più tradizionali del nazionalismo grande-russo: lo sciovinismo, l’ostilità verso il cosiddetto paganesimo occidentale e l’antisemitismo. Stalin morì il 5 marzo 1953, esigendo un ultimo tributo di sangue al proprio popolo: più di cinquecento furono i morti nella calca che durante i funerali affollò le strade vicine alla Casa dei Sindacati, lo stesso edificio dove nell’agosto 1936 era stato celebrato il primo grande processo staliniano contro Kamenev e Zinov’ev e dove fu esposto il corpo del dittatore. Settant’anni dopo, la visione xenofoba e tradizionalistica che i suoi ultimi anni di potere avevano scolpito sul profilo del regime sovietico avrebbe finalmente trovato una degna eredità nell’ideologia putiniana del Russkij Mir.