Corriere della Sera, 3 marzo 2023
Biografia di Lella Costa raccontata da lei
Nell’età barbarica dei social, all’ombra di 140 caratteri spesso intrisi di irosa sicumera, la sacerdotessa della parola ci ricorda che ogni sillaba è importante. Non a caso Lella Costa, signora milanese dal multiforme ingegno, non è su Twitter («Né altrove» ci tiene a precisare); piuttosto frequenta il palcoscenico ed è lì, nei meandri del teatro Carcano conficcato come un totem nel cuore della sua città, che la si trova in un pomeriggio di pioggia. Ci scaldiamo al tepore di un té e di parole mai banali, specialità della casa.
Alla direzione artistica dello storico Carcano, inaugurato in Corso di Porta Romana nel 1803, non si poteva certo dire di no.
«Una sfida accettata in pieno lock down, quando neanche sapevamo se i teatri avrebbero riaperto. Ofelè fa il to mestè : condivido con Serena Sinigaglia la direzione artistica e Mariangela Pitturru è la responsabile della programmazione. Una squadra di donne, le tre streghe del Macbeth. Qui debuttò El nost Milan di Bertolazzi, che nel ’78 ebbi la fortuna di vedere con Mariangela Melato protagonista. Mi sembrava un modo per restituire qualcosa a Milano, da cui ho avuto moltissimo: il concetto del civil servant passa anche da queste cose, credo».
Cosa voleva fare da grande?
«Non l’attrice. Andavo bene a scuola, ero timida, non lo so che sogni avevo. Iscrivendomi a lettere dopo il Carducci pensavo alla scrittura, forse all’insegnamento. Ho dato tutti gli esami però non ho fatto la tesi: nel frattempo ho incontrato il teatro».
Per caso, ammesso che esista, o per scelta?
«Non ho mai avuto il sacro fuoco, in quegli anni c’era anche la politica, che era una passione pazzesca. Nei meravigliosi ’70, con un gruppo di persone composito volevamo aprire un consultorio popolare di psicoterapia a Niguarda: la rivoluzione non poteva non passare da lì! Erano gli anni dell’anti-psichiatria inglese, c’era Franco Basaglia (quando a un David di Donatello Valeria Bruni Tedeschi lo ha ringraziato, mi sono commossa: ogni tanto è giusto ricordarsi quali sono i padri delle nostre libertà attuali), c’erano i colloqui simulati. Un giorno tocca a me. Mi avevano raccontato la storia surreale di una ragazza schizofrenica: ebbene, interpretando quel ruolo mi sono resa conto di saper fare una cosa che non credevo di poter fare. Recitare mi dava una straordinaria sensazione di interezza. Un’epifania. Non potevo lasciar cadere quella possibile vocazione. Mi hanno presa all’accademia dei Filodrammatici dove ho avuto Ernesto Calindri come insegnante, intanto facevo quelli di Grock, i seminari di Jerzy Grotowski, e un po’ alla volta è diventato il mio mestiere».
Perché proprio il monologo?
«Non m’importava tanto essere scelta come attrice, m’importava di più dire delle cose. Il primo fu scritto da Stella Leonetti: s’intitolava 1980, era la storia di una ragazza che faceva i conti con la sua situazione di precariato assoluto. Quando sono arrivata a scrivermi i miei testi ho scoperto che è la massima forma di libertà possibile».
Teatro, tv, libri, cinema, doppiaggio. Qual è il suo vero talento, Lella?
«L’essere di difficile collocazione. Cosa fa questa qua, esattamente? Boh. La considero una caratteristica alla quale tengo moltissimo».
Mettiamola così: dove si sente più a suo agio?
«Sul palcoscenico, con il pubblico, dal vivo. Durante il lock down ho patito come un’adolescente malmostosa, mi sono rifiutata di fare gli zoom e gli streaming. C’è un bellissimo saggio di Walter Benjamin che mi ha aperto gli occhi: lo spettacolo dal vivo è uguale solo a se stesso, così com’è quella sera non sarà mai più. In un’epoca in cui tutto è riproducibile, l’unicità è un valore enorme. C’ero al concerto di Tom Waits a Firenze, ho visto Springsteen in teatro a New York, in sesta fila, con Bill e Hillary Clinton. E non me lo scorderò mai più. Non c’è video che possa sostituire l’esperienza. Avere la cura di un teatro, in questo momento, mi sembra anche una questione di coerenza».
Ha mai pensato alla politica attiva?
«Non è il mio mestiere. I miei ideali e le battaglie che avrei comunque fatto le ho messe dentro gli spettacoli. Se è vero che mi sono conquistata un cincinin di credibilità, le cose dette dal palco hanno più valore. Sono militante, a modo mio. E, spesso e volentieri, al servizio. Essendo io laica, ma tanto tanto laica, curiosamente mi ritrovo sovente a lavorare con i preti. Don Giovanni Salatino, Gino Rigoldi, Gigi Verdi... Mi piace coltivare legami con persone che fanno quello che bisogna fare, e lo sanno fare».
Che punti di riferimento aveva da ragazza?
«In anni fortemente ideologizzati, ho avuto l’enorme fortuna di innamorarmi di Alberto Arbasino. Leggendolo, così lombardo ma lontano da me, mi ha pungolata a capire, studiare, conoscere. Non c’era Wikipedia: mi si è aperta la testa e sono partita alla scoperta. La mia formazione, accanto ai testi di politica e ai classici, è stata questa. Sul comodino avevo Il mestiere di vivere di Pavese, libro meraviglioso. Quando ho messo le mani su Cent’anni di solitudine ho pensato: allora esistono altri mondi! Ho letto tanto, ma tanto. Peter Brook, Tadeusz Kantor, Ariane Mnouchkine, anni luce dal teatro che avrei fatto io. Ho avuto il piacere di vedere Piera Degli Esposti che faceva Molly Cara al teatro di Porta Romana, che non c’è più come il teatro Uomo, il teatro quartiere, Piazzale Cuoco: c’era tanto, a Milano. Tutte le sere ero lì, da Piera, a rubare qualcosa. Come andare a scuola. I riferimenti su Milano sono stati Dario Fo e Franca Rame. Adesso, quando posso, scappo a Londra a vedere Ian McKellen, il più grande attore vivente».
Le piace Milano oggi?
«Non c’è un sola Milano, ce ne sono tante. Ne El Nost Milan abbiamo portato in scena 160 persone, io facevo il narratore: dai ragazzini delle scuole disagiate alle disabilità serie, dai rider ai senza tetto. Milano per certi versi è una città aliena, viverci costa uno sproposito, tante energie giovani non ce la fanno. Ho la terribile sensazione che tutto ciò che è cultura sia tornato ad essere una questione di classe. È una responsabilità di politica nazionale, il trionfo dell’economia di mercato. A teatro si pratica una visione del mondo che comprende tanti punti di vista: è importante, sennò ti sclerotizzi negli stereotipi. Però certo la città è cambiata in meglio esteticamente, qui forma e sostanza coincidono. Mutare è necessario, il plexiglas accanto al barocco ci può stare: Milano ha saputo trasformarsi senza azzerare il passato. E i risultati si vedono».
Mi parli degli incontri della vita.
«Mi ricordo come fosse ieri 1789 di Ariane Mnouchkine: non mi sembrava possibile vedere attori che finivano il loro pezzo, si levavano la maschera e guardavano il pubblico. La stessa cosa mi è successa con Peter Brook, che mi ha dato il senso della dignità di questo mestiere. Dario e Franca erano famiglia, casa; Franca Valeri l’ho venerata a lungo da lontano: quando l’ho conosciuta ho avuto la conferma che avevo fatto bene a venerarla. Nel 2008, decennale dei Monologhi della Vagina di Eve Ensler, io unica attrice italiana invitata (scusi se me la tiro), ho conosciuto Jane Fonda, un mito assoluto, che faceva il pezzo finale. Prima di andare in scena, ripassava. Ecco, Franca Rame ha studiato, ripassato, ricercato fino all’ultimo giorno. Quando è mancata ero in tournée con la Vedova Socrate, il suo ultimo monologo, che l’anno prima mi aveva affidato. Un grande onore».
Sua figlia Viola fa l’attrice: le fa piacere?
«Arianna, Viola e Nina hanno tutte fatto la scuola di teatro, l’importante è che seguano una loro vocazione ma, soprattutto, che mi abbiano perdonata».
Di cosa?
«Di aver fatto l’attrice».
Perché 35 anni dopo parliamo ancora della Tv delle Ragazze?
«Perché è stata una rivoluzione, e l’onda lunga arriva fino a oggi. Perché era fatta tutta da donne, comprese le autrici, autoironiche e intelligenti. È un sacrosanto patrimonio, né da idealizzare né da santificare ma a cui attingere».
Nel 2023 è ancora femminista?
«Io direi di sì, non è una cosa che passa. Il problema è il potere, che non è una parola buttata lì: dal potere passano leggi, decisioni, finanziamenti. Esiste un modo maschile di concepire i percorsi professionali che va cambiato. Finché il passo resterà quello, noi donne saremo sempre in affanno».
Meloni primo ministro è una buona notizia?
«È il tassello di un percorso, un pregiudizio superato. Detto questo, contano i fatti: i leader non si giudicano solo da quello che dicono. Vivere in un contesto che ha fatto di certi valori del maschile un fiore all’occhiello dev’essere tostissimo. Poche cose mi hanno infastidito come la vergognosa polemica che si sia portata la figlia al G20 di Bali dopo millenni di maschi che hanno imbarcato sugli aerei nani e ballerine. Mi auguro che faccia bene per tutti, non solo per accontentare quel manipolo di ipertiroidei che ha attorno. La battuta è di Woody Allen, non mia».
Il movimento Me Too: cosa ne pensa?
«Tema delicatissimo. Non si devono mettere in dubbio le testimonianze però, se si denuncia, bisognerebbe fare nomi e cognomi sennò non cambierà mai nulla. Si parla solo del mondo dello spettacolo ma le donne in tutti gli ambiti della vita, anche quelli molto meno glam, patiscono quotidianamente piccole o grandi discriminazioni. Vorrei che fosse l’inizio di un movimento generale di tutta la società».
Rifarebbe tutto daccapo?
«Sì. Qualche correzione di rotta, magari, ma le grandi decisioni non le cambierei».
Settant’anni sono un peso o un privilegio?
«Invecchiare fa abbastanza schifo, ma tocca a tutti. Il teatro è una gran fatica, però meglio di qualsiasi pilates o palestra. Certo ho la netta percezione di non poter rimandare: il tempo è meno. Ma ho anche l’ironia che, come diceva Romain Gary, è una dichiarazione di dignità».