la Repubblica, 3 marzo 2023
Intervista allo scienziato Thomas Hartung
Il futuro dell’intelligenza artificiale non è l’inquietante HAL9000 immaginato da Arthur C. Clarke e reso icona pop da Stanley Kubrick, ma qualcosa che, paradossalmente, evoca suggestioni ancora più oscure e antiche, come la creatura del dottor Victor Frankenstein di Mary Shelley. Ne parliamo con Thomas Hartung, biochimico e farmacologo tedesco della Johns Hopkins University di Baltimora. È lui che sull’ultimo numero diFrontiers in Science ,insieme a venti colleghi di vari paesi, descrive il modo di utilizzare neuroni umani, ottenuti da cellule staminali, per costruire un computer biologico molto più efficiente di quelli che utilizziamo ogni giorno. E anche molto più spinoso da un punto di vista bioetico: e se un domani quell’agglomerato di neuroni ne contasse così tanti da diventare, in qualche modo, senziente? Non acquisirebbe qualche diritto?
Dottor Hartung, perché dovremmo avere un computer biologico? L’idea generale è che la biologia sia in qualche modo obsoleta…
«In realtà i computer che abbiamo oggi non sono ancora pari al cervello. La capacità di calcolo del cervello è stimata a un exaflop. Il supercomputer più potente del mondo, ovvero “Frontier” dell’Oak Ridge National Laboratory, ha superato questa capacità solo da pochi mesi, però occupa 680 metri quadrati, costa oltre 600 milioni di dollari e consuma 21 Megawatt, oltre un milione di volte il consumo energetico di un cervello umano. Secondo la legge di Moore (ogni due anni i computer raddoppiano in potenza) serviranno altri 33 anni prima di avere un laptop con la stessa capacità di calcolo del cervello umano».
Dunque i neuroni sono ancora meglio del silicio.
«Sono, soprattutto, più efficienti. Per insegnare a un bambino la differenza tra un gatto e un cane, non serve mostrargli più di dieci fotografie. Per insegnarlo a un computer, servono invece migliaia di esempi. Questo perché il nostro cervello è molto più abile nel trattare dati incompleti, contraddittori: abbiamo l’intuizione, che ci permette di prendere scorciatoie proibitive per un computer».
Comunque queste ricerche hanno ricadute importanti anche per la medicina, giusto?
«Certo, ad esempio se dalle cellule di un donatore costruisco un minicervello in provetta, posso utilizzarlo per sperimentare farmaci e cure che saranno personalizzate, e quindi efficaci, per quella persona, senza fargli rischiare nulla».
Quali sono i successi e i limiti di quella chevoi, in contrapposizione all’intelligenza artificiale, definite “intelligenza organoide”?
«Uno dei coautori del nostro studio, in novembre, assemblando neuroni ottenuti dalle staminali è riuscito a costruire un organoide capace di giocare al videogiocoPong .In sé è un risultato straordinario,considerando che l’intelligenza organoide è una scienza che sta muovendo i suoi primi passi. Quell’organoide ha appreso a giocare aPong ,però il giorno dopo aveva dimenticato tutto. Perché era privo della memoria a lungo termine. Oggi però stiamo lavorando a una versione più sofisticata, che chiamiamo “assembloide” perché mette insieme più organoidi specializzati, e che sarà capace di ricordare più a lungo. Per questo scopo serve la collaborazione di tante cellule: il nostro cervello solo per metà è composto da neuroni, ci sono anche delle cellule “aiutanti”, dette gliali, importanti per la memoria. E c’è naturalmente l’ippocampo, che trasforma i ricordi a breve termine in ricordi duraturi. Anche l’ippocampo può essere coltivato in provetta dalle cellule staminali, e poi inserito in un “assembloide” che diventa via via più simile a un cervello “umano”».
Una somiglianza che, a dirla tutta, fa un po’ rabbrividire i bioeticisti, oltre che i divoratori di fantascienza…
«Si aprono sfide bioetiche enormi, certo. Del resto è da un anno che tutti noi ricercatori coinvolti nello sviluppo di organoidi cerebrali facciamo rete per discutere dei temi etici che attraversano queste ricerche. Ad esempio: se costruisco un organoide dalle staminali di un donatore, e negli esperimenti sull’organoide mi accorgo che quei neuroni mostrano suscettibilità a una malattia, ad esempio il Parkinson o l’Alzheimer, dovrei avvisare il donatore?».
Il problema bioetico più evidente però è un altro: che succede se a forza di aggiungere neuroni su neuroni il suo assembloide diventa… troppo intelligente, consapevole della sua infelice condizione?
«Questa è certo una preoccupazione, anche se è molto più a lungo termine. Quando e se si arriverà a quel punto, allora i problemi potrebbero essere: questi organoidi avranno delle aspettative? Se li nutro ogni giorno con una soluzione zuccherina, posso smettere di dargliela, oppure li farei soffrire? Tenga presente che queste sono tutte domande teoriche perché siamo davvero ancora molto, molto lontani dall’avere in provetta qualcosa che possa sviluppare coscienza di sé. Ma abbiamo bisogno di iniziare a discuterne già ora. I bioeticisti che lavorano con noi stanno cercando di stabilire la soglia minima oltre la quale si può definire “senziente” un organismo, così da essere pronti per il futuro».
Oggi a che punto siete nella strada verso il cervello in provetta?
«Abbiamo sviluppato degli assembloidi cerebrali lunghi mezzo millimetro. E ora ne stiamo realizzando uno più potente, lungo un centimetro: quasi due volte più grande del cervello di un topo».