Avvenire, 2 marzo 2023
3, il numero perfetto anche nei libri
Anticipiamo un brano del capitolo sulla letteratura tratto da Tre. Divina aritmetica (Il Mulino, pagine 176, euro 13,00), scritto dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura. Il libro, che fa parte della collana “Storie di numeri” (sono già usciti Uno di Giulio Busi e Cento di Marco Antonio Bazzocchi), sarà in libreria da domani. Il tre è molto più di un numero, è una cifra perfetta che svela leggi affascinanti e segrete. Tre sono le cantiche della Divina Commedia, tre le Grazie, tre le Parche, tre volte Sanctus è Dio nel canone della Messa; ma sono tre anche gli atti di un’opera lirica e i movimenti di un concerto. Tre è la cifra che ci riporta subito alla Trinità cristiana, ma che è norma regolatrice di perfezione per tante altre realtà. Una presenza ubiqua, una vera e propria ossessione ternaria, dove anche il sapere popolare ci ricorda che «non c’è due senza tre». La riflessione del porporato passa attraverso la musica, le triadi bibliche e classiche, naturali e scientifiche, poetiche, letterarie e sacre. Per andare alla scoperta di un numero che trascende la semplice aritmetica.
«L’arte non serve a nulla, tranne che a mostrare il senso della vita». Questa battuta nasce dalla penna di uno scrittore irriverente, Henry Miller (1891-1980), nel suo scritto Il giudizio del cuore (1941), e noi la assumiamo come motto per introdurre la nuova tappa della nostra ascesa lungo il monte trinitario. Da questa balza si allarga un orizzonte immenso, quello appunto dell’arte ove la ricerca dell’uso del ritmo ternario si fa quasi impossibile perché dovremmo percorrere tutte le varie discipline, dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla prosa, dalla musica all’architettura, dalla cinematografia alle arti visive varie.
Un’antologia ternaria letteraria
Anzi, come è noto, ora il concetto di cultura non è più quello aristocratico del Settecento illuministico quando in tedesco si coniò questo vocabolo su base latina, Cultur/Kultur: allora si incasellavano in questo termine, ignoto alla classicità latina se non come agri cultura (Cicerone), proprio tutte le discipline nobili sopra elencate. Ora, invece, «cultura» è divenuto un concetto antropologico che abbraccia tutte le elaborazioni coscienti e coerenti della persona umana e della società (non per nulla si parla, ad esempio, anche di cultura industriale).
(...) La considerazione di Miller ci svela il valore ultimo della stessa cultura in tutte le sue iridescenze, quello di essere un’epifania del significato dell’essere e dell’esistere. Come si diceva, è impossibile ricercare le triadi in tutte le arti, anzi, sarebbe già arduo individuarle in una sola disciplina come, ad esempio, la letteratura. Abbiamo, allora, scelto di raccogliere liberamente un’antologia tematica ternaria proprio e soltanto a livello letterario.
Lo facciamo in modo evocativo ricorrendo solo alle opere che nel titolo stesso recano il sigillo del numero tre, tralasciando molte altre possibilità (tutti penserebbero alle tre cantiche della Divina Commedia o ai tre atti dei drammi o alle tre parti di molte opere liriche musicali e così via). Abbiamo, così, selezionato un settenario esemplificativo di scritti che articoliamo ovviamente in modo ternario: a opere strutturate a trittico di racconti ne faremo seguire altre la cui trama si basa su triadi familiari (fratelli o sorelle) e, infine, subentreranno le triadi amicali ove sono in azione le vicende vissute insieme da amici o compagni. (...)
Due triadi letterarie familiari
La nostra antologia ternaria ci conduce ora idealmente a una tipologia che abbiamo nominato triade familiare, perché vede come protagonisti di opere letterarie tre fratelli o sorelle. È obbligatorio inaugurare questa sezione con un dramma in tre atti emblematico già nel titolo e segnato da una fortuna costante, tanto da essere rappresentato anche ai nostri giorni. Ci riferiamo a Le tre sorelle che il grande Anton Cechov compose nel 1901. Come accade spesso nei suoi scritti, quest’opera ci conduce nella profonda provincia russa, in un clima di desolazione, incomprensioni, amarezze e solitudini. Ol’ga, Maša, Irina sono appunto tre sorelle che, in quel grembo ristretto e remoto, vivono col loro fratello Andrej sognando Mosca, la metropoli vista come una meta luminosa, fervida, capace di infrangere il grigiore della loro città marginale. La trama è ben nota, anche nei suoi modesti colpi di scena. Ol’ga invecchia nella solitudine, Maša perde il suo amato, un colonnello già sposato trasferito in altra sede, Irina diventa vedova perché il marito, un barone, muore in un duello. Non meno infelice è il matrimonio del loro fratello con una donna rozza e prepotente. Alla fine le tre sorelle si disperderanno in percorsi di vita incolori.
Scegliamo poi, in parallelo, un’altra triade familiare ancor più angosciosa, già esplicitata nel titolo Tre croci: sono quelle finali, tutte uguali, erette in un cimitero e destinate a suggellare la storia tragica di tre fratelli senesi, Niccolò, Giulio ed Enrico Gambi. È l’occasione per rinverdire la memoria di uno scrittore dimenticato, anche lui senese, Federigo Tozzi, che pubblicò questo romanzo nel 1920, l’anno della sua morte, avvenuta a Roma per una polmonite a soli 37 anni. Titolari incapaci di un negozio di antiquariato, i tre fratelli cadono nella morsa delle cambiali, sostenuti e salvati inizialmente da un amico. Ma la deriva economica si fa sempre più travolgente e devastante e Giulio ricorre alla falsificazione delle cambiali imitando la firma del loro iniziale benefattore. Scoperto, viene trascinato in un processo che infanga anche gli altri fratelli e che approda a una condanna.
Disperato, egli sceglie la via del suicidio. Questo suo atto tragico inaugura la caduta precipite degli altri due: Niccolò si ammala gravemente e alla fine soccombe al suo male, mentre Enrico si abbrutisce nell’alcol e conclude i suoi giorni in un ospizio per mendicanti. Sullo sfondo di questa vicenda amara campeggiano appunto le tre croci misere delle loro tombe.
Due triadi amicali
Diverso è il clima che regge l’ultima tipologia letteraria che abbiamo chiamato trilogia amicale. La definiamo così perché protagonisti sono sempre tre amici che vivono esperienze comuni. Il primo esempio è celebre anche per le sue riprese teatrali, cinematografiche e televisive. Eppure il romanzo che è alla base è del 1844, frutto del genio creativo di Alexandre Dumas padre, figlio di un generale meticcio napoleonico, autore di cultura approssimativa ma di intensa vitalità inventiva. Facile è comprendere quale sia l’opera da noi scelta: sono i Tre moschettieri, Porthos, Athos, Aramis che, però, hanno il loro riferimento nella figura di un quarto personaggio, un giovane avventuriero, il guascone d’Artagnan, sullo sfondo di una Parigi del Seicento. Potremmo dire che nei personaggi del romanzo si declina ulteriormente la nota formula 3+1, perché ai tre militari reali si associa un protagonista, d’Artagnan appunto. Le vicende sono famose e vedono in azione il potente e terribile cardinale Richelieu, primo ministro del re Luigi XIII, e la sua perfida agente Milady de Winter, le cui manovre mettono in crisi la regina col suo amante, aggiungendo delitti a delitti. La conclusione obbedisce ai canoni del lieto fine: Milady de Winter salirà sul patibolo, d’Artagnan si piegherà al cardinale, ricevendo la promozione a luogotenente, Porthos convolerà a giuste nozze, Athos si ritirerà in campagna e Aramis si consacrerà al sacerdozio. Altrettanto vivace, anche se meno popolare, è l’altra triade di amici la cui avventura è già esplicitata nel titolo Tre uomini in barca, romanzo dell’inglese Jerome Klapka Jerome, pubblicato nel 1889, espressione esemplare dell’umorismo britannico, del costume di vita ottocentesco e del buon senso comune. La storia è narrata da uno dei tre amici che decidono di staccarsi dalla noiosa e scontata quotidianità londinese intraprendendo una vacanza in barca per una quindicina di giorni lungo il Tamigi fino a Oxford. L’unico sospettoso e ostile è il loro cane, un fox-terrier che conferma il ricorso al modulo a cui spesso abbiamo accennato del 3+1. La trama è incastonata di aneddoti, di piccoli colpi di scena, di incidenti e di piacevoli avventure. Il rientro si rivela, però, un disastro, a causa di una pioggia scrosciante e incessante che esaspera i tre fino al punto di spingerli ad attraccare con la barca in un villaggio per ritornare a Londra in treno. Là concludono la loro avventura con una cena sontuosa e uno spettacolo di balletto, convinti che la vita urbana non è così monotona come sospettavano. L’opera è stata sceneggiata per un film dal titolo omonimo apparso sullo schermo nel lontano 1956 e sbilanciato secondo un impianto solo comico. A margine di questa annotazione finale, osserviamo che imponente è il ricorso al numero tre nella titolatura cinematografica, soprattutto col ricorso ai «tre volti» dell’amore, della paura, del terrore, oppure col rimando alla trilogia del terrore (ben due film s’intitolano così), alla triade di Shanghai o al trio infernale, o anche all’introduzione di tre uomini che sono in fuga, oppure recano con sé una culla o una gamba (in quest’ultimo caso, è facile pensare al titolo di un film del trio comico costituito da Aldo, Giovanni e Giacomo, girato nel 1997).