il Giornale, 2 marzo 2023
Intervista a Goldie Goldbloom
Madre (Playground, pagg. 270, euro 18) è un romanzo che parla di una donna chassidica, Surie, madre di dieci figli, che a 57 anni scopre di essere incinta di due gemelli. Nella comunità ebraica ortodossa di Williamsburg, a Brooklyn, dove vive, la notizia susciterebbe troppo scandalo. E così Surie tiene per sé il suo segreto, che si mescola a un altro dolore nascosto, la morte del figlio Lipa, che si è ucciso dopo essere stato allontanato dalla famiglia e dalla comunità perché gay. Madre – in inglese il titolo è On Division – è un romanzo che parla dell’eterno conflitto fra individuo e comunità, di amore profondo, di famiglie e di una libertà che va ben oltre le comode ribellioni conformiste. È stato scritto da un’altra donna, Goldie Goldbloom, australiana, madre di otto figli e membro della comunità chassidica di Chicago.
Chi è Surie?
«Una anziana signora dignitosa e piena di vita, una nonna che, presto, diventerà bisnonna, che ama il marito e la famiglia, la comunità e il proprio mondo... È un pilastro della sua comunità e una persona rispettata. Parla yiddish, inglese e ungherese e in tasca tiene gli occhiali di suo figlio morto».
Com’è Williamsburg?
«Un tipo molto particolare di comunità ebraica chassidica. È famosa per l’incredibile rete di servizi sociali, le sinagoghe e le scuole enormi e bellissime, le famiglie numerose, e la devozione profonda ai dettagli più intricati della religione. Ma non ci sono due chassidim identici all’interno di uno stesso gruppo. Come in ogni altra comunità del mondo, le persone restano degli individui e devono prendere le decisioni giuste per sé e per i propri famigliari».
Vigono regole rigide. Può raccontarne qualcuna?
«Tutti nel mondo seguono regole rigide, solo che alcune ci sembrano più familiari di altre. Per esempio, quella di non attraversare col rosso o di non investire i pedoni... Ecco, anche per i chassidim le regole non sono restrittive, sono molto comprensibili e rassicuranti. Due set di piatti e di posate, uno per la carne e uno per i latticini, tenuti completamente separati: tutti gli ebrei ortodossi del mondo lo fanno. Ma solo le donne di certi circoli chassidici indossano una sciarpa bianca e un grembiule il venerdì sera, e i loro mariti berretti tondi di pelliccia. E la maggior parte dei chassidim si lava le mani ancor prima di alzarsi dal letto».
Surie scopre di essere incinta e si vergogna.
«Ha paura che la sua gravidanza attiri ulteriore attenzione sulla sua famiglia, che ha già sofferto di attenzioni negative quando suo figlio Lipa è morto. Qualsiasi gravidanza è vista come una benedizione, ma Surie ne è scombussolata».
Che cosa significa avere un segreto, nella comunità?
«Oggi molte più persone tendono ad ammettere di avere un figlio con qualche bisogno speciale o, meno frequentemente, di avere un figlio gay. Cose del genere erano tenute nascoste ovunque, ma fra i chassidim il cambiamento è più lento e l’argomento è ancora tabù. Quando il romanzo è uscito in America ho ricevuto moltissime email e telefonate di genitori e il commento che ho sentito più spesso è stato: Oh mio Dio, allora non siamo l’unica famiglia?».
A un certo punto, Surie non accetta più le regole riguardo a Lipa. Perché?
«Lipa è stato davvero cancellato, sia prima, sia dopo la sua morte. Ma Surie lo ama: era suo figlio, vuole piangere la sua perdita e riflettere su quei gesti che lo hanno allontanato. Per tutta la gravidanza ne è tormentata: riversa tutto il silenzio della comunità a proposito di Lipa sui suoi nuovi bambini; tanto che, fino a che non riesce a trovare un modo per parlare di Lipa col marito, non riesce nemmeno a parlare di loro. Lo potrà fare solo quando avrà provato come debba essere stato essere Lipa, ovvero mantenere un segreto spaventoso per il quale sapeva che sarebbe stato giudicato e scontrarsi con alcuni dei confini più duri della comunità».
Nonostante le apparenze, Surie è un’eroina tragica.
«Assolutamente. Spero che sia un modello per tutte le donne che si portano un segreto dentro di cui non riescono a parlare con le persone care. Surie sceglie la connessione al posto della politica e delle regole, l’amore anziché il sistema e la cosa giusta... Abbiamo bisogno di più donne come lei».
L’individuo può rimanere sé stesso, anche in una comunità con le sue regole?
«Amore e libertà sono sempre possibili. Qualsiasi società impone delle regole e cerca di dirci che cosa pensare, e perché. Siamo tutti Surie: lottiamo per connetterci alle persone che amiamo, con la paura di essere giudicati».
Perché ha scritto questo libro?
«Perché ho lanciato una sfida a uno dei miei figli: dieci giorni per creare qualcosa... Così, il primo giorno ho preparato una lista di cose di cui so molto e per le quali non avrei avuto bisogno di fare ricerca: botanica, ostetricia, accudimento dei bambini, chassidim, Williamsburg, yiddish, galline, temi Lgbtq+... ed ecco che tutte queste cose sono finite nel romanzo. Ma, a un livello più profondo, cercavo di connettermi a mio figlio, che mi aveva dato un dispiacere, e quindi volevo scrivere un libro sulla possibilità di superare quel genere di cose che distruggono le famiglie, e le nazioni».
Lei è un’attivista: come l’ha presa la comunità?
«Sono un membro fondatore di Eshel, una organizzazione di sostegno per ebrei ortodossi Lgbtq+. Il mio Rabbi locale dice che non la vediamo allo stesso modo sull’argomento... La maggior parte delle persone nella mia comunità aveva paura di me e non mi rivolgeva la parola, ma poi le cose sono cambiate, perché io non ho mollato. Anche se sono serviti quindici anni».
E il lavoro di scrittrice?
«Quasi nessuno nella mia comunità sa che sono una scrittrice, perché molti non leggono libri laici. Ma avere un segreto è divertente... Il problema è piuttosto il fatto che possieda quarantamila libri, non religiosi, in casa mia, il che suscita davvero molta, molta disapprovazione».
Quali sono i lati positivi della comunità?
«I lati positivi di vivere in un gruppo forte, animato, caloroso e amorevole, molto orientato al servizio e alla famiglia? Ah... La casa è sacra, la famiglia è sacra, le persone sono buone, gentili e amorevoli, per la maggior parte; se ti ammali o hai un figlio o arrivi tardi dal lavoro, la gente ti porterà del cibo squisito preparato in casa; e ci sono ogni genere di associazioni per il prestito, perciò, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, puoi averla gratis...».
Nel libro emerge anche la discriminazione verso la comunità. Sebbene non susciti indignazione, come quella verso altre minoranze.
«È vero, c’è molta discriminazione verso la comunità. Spesso le persone sottraggono 50 punti al mio quoziente intellettivo, appena vedono come sono vestita. Le vetrine dei negozi del quartiere sono spesso in frantumi, e ci sono persone che ci lanciano bottiglie per strada e ci gridano insulti. In altre comunità, questo genere di discriminazione è punibile con la prigione, ma di solito i razzisti che odiano gli ebrei vengono spediti al museo locale dell’Olocausto. Ho sperimentato molta discriminazione anche in Europa, ma mai in Italia, in quattordici anni di viaggi».