Corriere della Sera, 2 marzo 2023
Da "Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte" di Carlo Rovelli (Adelphi)
L’inizio è il passo difficile. Le prime parole aprono uno spazio. Come il primo sguardo della ragazza di cui stiamo per innamorarci: una vita si gioca nell’accenno di un sorriso. Ho esitato prima di iniziare a scrivere. Andavo a passeggiare nel bosco dietro casa, qui in Canada, non so ancora bene dove andrò.
Da qualche anno la mia ricerca si è concentrata sui buchi bianchi, elusivi fratelli minori dei buchi neri. Questo è il mio libro sui buchi bianchi. Provo a raccontare come sono fatti i buchi neri, che vediamo nel cielo a centinaia. Cosa accade sul bordo di queste strane stelle, l’orizzonte, dove il tempo appare rallentare fino a fermarsi e lo spazio sembra strapparsi. Poi giù, dentro, nelle regioni più interne, fin dove tempo e spazio si sciolgono. Fin dove è come rimbalzare indietro nel tempo. Fin dove nascono i buchi bianchi.
È il racconto di una avventura in corso. Come ogni inizio di viaggio, non so bene dove porterà. A quel primo sorriso non posso chiedere dove andremo a vivere insieme... ho in mente un piano di volo: arriviamo sul bordo dell’orizzonte. Entriamo. Scendiamo fino in fondo. Attraversiamo il fondo — come alice lo specchio —, riemergiamo nel buco bianco. Ci chiediamo cosa accade se il tempo torna indietro... Usciamo infine a riveder le stelle, le stesse nostre stelle, dopo un tempo che è qualche attimo e insieme milioni di anni. O il tempo di leggere le poche pagine di questo libro.
Mi seguite?
Marsiglia. Hal è nel mio studio, in piedi davanti alla lavagna. Sono seduto alla scrivania, nella grande sedia che si inclina, i gomiti sul tavolo, gli occhi puntati su di lui. Dalla finestra entra la luce tersa e abbagliante del Mediterraneo. Inizia così la mia avventura con i buchi bianchi.
Hal è americano, credo abbia un po’ di sangue cherokee. Forse è quel sangue che gli dà la dolcezza con cui stempera la brillantezza delle sue idee.
Usciamo a riveder le stelle dopo un tempo che è qualche attimo e insieme milioni di anni
Oggi insegna in un college, ma al tempo era ancora studente. Gentile, preciso, con il suo fare tranquillo, da ragazzo molto maturo. Sta cercando di dirmi qualcosa che non capisco. Un’idea su cosa possa capitare a un buco nero nel momento preciso in cui finisce la sua lunga vita.
Ricordo le sue parole: le equazioni di Einstein non cambiano, se ribaltiamo il tempo; per avere un rimbalzo rovesciamo il tempo e incolliamo le soluzioni. Sono confuso.
Poi d’un tratto vedo cosa intende. Wow! (Io sono italiano, non resto tranquillo come un cherokee). Vado alla lavagna e faccio un disegno. Mi batte forte il cuore.
Ci pensa: sì, più o meno questo. Io: è un buco nero che si trasforma in bianco per effetto tunnel quantistico all’interno, ma l’esterno può restare eguale... Ci pensa ancora un po’: sì... non so... cosa dici, potrebbe funzionare?
Ha funzionato. Perlomeno nella teoria. Sono passati nove anni da quella conversazione nella luce chiara di Marsiglia. Sull’ipotesi che i buchi neri si possano trasformare in bianchi ho continuato a lavorare. Con me studenti e colleghi, via via sempre più numerosi. È un’idea che mi sembra bellissima. È l’idea che voglio raccontare.
Non so se sia giusta. Non so neppure se i buchi bianchi esistano veramente, nella realtà. Sui buchi neri sappiamo moltissimo — li vediamo —, i buchi bianchi non li ha ancora visti nessuno.
Quando studiavo a Padova per il dottorato, Mario Tonin ci insegnava fisica teorica: ci diceva che secondo lui ogni settimana il buon Dio legge il «Physical Review D», la celebre rivista di fisica. Quando trova un’idea che gli piace, zac! la mette in pratica, riarrangiando le leggi universali. Se è così, buon Dio, mi piacerebbe se Tu lo facessi: fai che i buchi neri finiscano col diventare bianchi…