Corriere della Sera, 2 marzo 2023
Mogol ricorda Lucio Battisti
Giulio Rapetti Mogol, se Lucio Battisti fosse ancora fra di noi, domenica compirebbe 80 anni. Se lo ricorda il vostro primo incontro?
«Ci fece conoscere Christine Leroux, direttrice di una casa di edizioni musicali che aveva fatto un contratto a Lucio. Lui mi fece sentire due canzoni. “Non mi sembrano un granché”, dissi. E lui “In effetti... sono d’accordo”. Era semplice e umile, sorrise nonostante la batosta. Per non sentirmi un verme miserabile gli proposi di vederci per provare a fare qualcosa insieme. Nacquero “Dolce di giorno” e “Per una lira”».
Cosa ci aveva visto in quel ragazzo alle prime armi?
«Farei bella figura a dirlo, ma non avevo intuito nulla. Però la terza canzone fu “29 settembre” che divenne un successo dell’Equipe 84. All’inizio Lucio non voleva cantare, dovetti insistere prima di convincerlo».
Questa volta aveva visto lontano...
«Era moderno. Non cantava per far sentire la voce, ma per comunicare qualcosa».
La chimica fra di voi?
«Lui era un matematico. Studiava sette ore al giorno le canzoni dei più grandi artisti mondiali, un giorno mi disse che si era concentrato solo sulle pause di alcuni successi. Io ero la parte letteraria, mi chiamava “il poeta”. Ho sempre scritto le parole dopo la musica perché credo che ogni frase musicale abbia già un suo senso».
Il vostro metodo di lavoro?
«Ci trovavamo tutte le mattine nella mia villa di campagna a Molteno. Io preparavo il primo caffè per accoglierlo, lui quelli successivi. Lucio stava sul divano con la chitarra, io sul tappeto con carta e penna. Lavoravamo un’ora, dalle 9 alle 10, e nasceva una canzone al giorno. Una volta che era pronto un album, il primo ascolto era riservato a un amico giardiniere».
Chi aveva più successo con le donne?
«Ce la giocavamo. Io ero poco serio...».
Un vostro brano brutto?
«Non ne ricordo. Una sola volta gli dissi che non avrei mai scritto il testo per una sua musica e al massimo gli avrei dato un titolo: “Il fuoco”, era da bruciare».
Dati Siae alla mano, il vostro più grande successo?
«“Il mio canto libero”. Racconta di un mio nuovo amore dopo il divorzio. Allora non era cosa comune e infatti inizia con “in un mondo che non ci vuole più”».
Qualcuno l’aveva letta in chiave politica... Come accadde ai «boschi di braccia tese» di «La collina dei ciliegi» interpretati come una folla che fa il saluto romano.
«Quelle braccia non erano un simbolo politico. Lo hanno detto anche per quelle della copertina di “Il mio canto libero”. Ma sono braccia con i palmi aperti come per un’invocazione al signore. Volevano darmi del fascista perché non facevo canzoni impegnate. Non ho mai sentito Lucio parlare di politica: semplicemente non scrivevamo canzoni per il comunismo. Però i dischi di Lucio vennero trovati nel covo delle Br: è un fatto storico».
Rifiutavate, e citiamo «Una giornata uggiosa», le «ideologie alla moda»?
«Era una risposta al clima di allora. Uno come me rischiava... si sparava. Si arrivò a fare un processo pubblico a De Gregori, uno da pugno alzato, perché guadagnava facendo il cantante. Per evitare gli insulti consigliai a Lucio di non fare più concerti».
La prese fin troppo alla lettera. Sparì...
«Non tornò a esibirsi nemmeno quando il clima cambiò. Credo che capì, anche se non me lo ha mai confessato, che questo l’avrebbe reso un mito».
Oggi sarebbe sui social?
«Non lo so. Forse non funzioneremmo nemmeno».
Nel 1980, dopo circa 150 canzoni scritte insieme, litigaste per soldi...
«Non fu una questione di soldi, ma di equità. Lui otteneva due terzi dei diritti e io un terzo. Chiesi di dividere in parti uguali. Sembrava d’accordo, ma il giorno dopo cambiò idea. Gli dissi che non avrei più lavorato con lui».
Cosa gli vorrebbe dire in occasione del suo 80esimo compleanno?
«Lucio sta tranquillo, che tra un po’ staremo di nuovo insieme... Ho 86 anni...».