Corriere della Sera, 2 marzo 2023
Mariangela D’Abbraccio parla di Giorgio Albertazzi
Complice ruffiano fu D’Annunzio. Era il 1988 e, tra i versi erotici del Vate nello spettacolo Dannunziana, nacque la passione scenica e amorosa tra Giorgio Albertazzi (classe 1923) e Mariangela D’Abbraccio (1962).
«Veramente iniziammo la nostra coppia teatrale con uno spettacolo, dove io interpretavo un transessuale – esordisce l’attrice, che lo racconta a cento anni dalla nascita – Giorgio mi aveva scelto con un provino: per interpretare un ragazzo che si trasformava in ragazza, cercava un’attrice molto femmina, l’eccesso della femminilità: un tema difficile da trattare all’epoca. Poi, con la Dannunziana, prese il via il nostro vero percorso scenico...».
Uno spettacolo dove lei appariva nuda...
«Sì, in palcoscenico e sulla locandina. Non c’era nulla di pornografico nel mio corpo nudo, ma fu considerato scandaloso e venne vietato ai minori di 18 anni».
Albertazzi un provocatore?
«Direi di sì, ma perché sin da bambino si è sempre sentito uno fuori luogo, non all’altezza: Un perdente di successo è infatti il titolo della sua autobiografia. Mi raccontava di quando, dalla sua modesta casa a Fiesole, vedeva dalla finestra all’interno della Villa I Tatti, del celebre storico dell’arte Bernard Berenson: personaggi famosi ospitati per feste, ricevimenti... e lui guardava estasiato. Finché Berenson, che si era accorto dell’indesiderato intruso, fece murare la propria finestra attraverso cui veniva “spiato”. Era come dirgli: tu sei fuori dal nostro mondo importante. Da qui, secondo me, nasce la sua insicurezza e, di conseguenza, la voglia di piacere».
Anche i rapporti con le sue attrici sono sempre stati totali: da Anna Proclemer a Bianca Toccafondi, da Elisabetta Pozzi a lei, Mariangela...
«Lavorando insieme, nasceva un’affettività elettiva, che somigliava all’amore. Ma sottolineava che sulle tavole del palcoscenico non si può parlare di innamoramento».
Però si innamorò di lei...
«Per lui l’arte e la vita erano una cosa sola. Quando sentiva di aver trovato un talento, voleva condividere tutto: il palcoscenico era libertà e trasgressione assoluta».
E lei, Mariangela, si innamorò di lui?
«Io ho capito che il nostro era diventato qualcosa di diverso quando iniziò la tournée della Dannunziana. La sera, dopo teatro, ci intrattenevamo in albergo, parlavamo di quello che stavamo recitando, ci scambiavamo emozioni. Lo spettacolo non finiva con la chiusura del sipario».
Era un narciso?
«Sensibile alle lusinghe, non sopportava di passare inosservato. Fragile, vulnerabile, era facile ferirlo e odiava gli imprevisti. Tanto che gli risparmiai uno scherzo orchestrato da Scherzi a parte».
In che modo?
«Feci io uno scherzo a loro. In quel periodo recitavamo a Milano, Canale 5 mi aveva contattato come complice e io feci finta di accettare: a fine spettacolo, avremmo dovuto salire su un “finto” taxi, su cui all’improvviso doveva salire una “finta” donna incinta che stava per partorire e venivamo dirottati tutti insieme al pronto soccorso su una “finta” ambulanza, coinvolgendo Giorgio ignaro di tutto! Invece quella sera non siamo saliti sul “finto” taxi, ma siamo andati tranquillamente a piedi al ristorante lì vicino».
Come è andata a finire?
«Quelli di Canale 5, pronti a fare la sceneggiata, rimasero annichiliti e furiosi fuori dal ristorante, poi sconfitti si arresero e se ne andarono. A Giorgio quella sera non raccontai nulla, si sarebbe arrabbiato. Glielo dissi tempo dopo e sentenziò: hai fatto bene».
È stato il suo pigmalione?
«Mi ha insegnato a essere me stessa, lui non recitava mai e riusciva a sorprendere il pubblico. Ricordo un episodio divertente. Eravamo al Ravello Festival con uno spettacolo su Borges e Piazzolla: era avanti con gli anni, molto affaticato. Quella sera, inciampa in palcoscenico, cade ed esclama con la sua ironia da toscanaccio: “La caduta degli dèi!”. Venne sommerso dagli applausi».
Albertazzi era noto anche come tombeur de femmes, gli piacevano molto le donne: come commentò l’attività di sua sorella Milly, una bellissima donna che faceva la pornodiva?
«Non era un moralista, non giudicava, da trasgressivo qual era non si stupiva di nulla e sicuramente si era divertito all’idea... Così come si divertì a stupire il pubblico quando insieme alla Proclemer cantarono la versione italiana di Je t’aime moi non plus. Era un tipo giocoso, amava l’imprevisto e l’attività di mia sorella rientrava nell’imprevedibile».
Un Casanova o un Don Giovanni?
«Sicuramente Casanova. Un seduttore, certo, che però si innamorava sinceramente. Non a caso, portammo in scena Il ritorno di Casanova di Schnitzler: lui un Casanova maturo che tenta inutilmente di corteggiare e conquistare la giovane Marcolina, da me impersonata».
Durante il vostro rapporto sono nate gelosie?
«Nel gioco dell’amore, metteva in conto anche la gelosia, ma senza dargli tanta importanza. Per quanto mi riguarda ero troppo giovane e distratta per essere gelosa e poi Giorgio mi metteva al centro di tutto in maniera assoluta».
Essendo molto più grande di lei, era paterno?
«Lo è sempre stato anche con le altre compagne. Ti organizzava, ti seguiva in tutto, attento ai tuoi desideri: un compagno solido, su cui poter fare affidamento».
Perché è finita tra voi?
«Avendo età tanto diverse, non poteva durare tutta la vita. A un certo punto, io iniziai un’altra storia e glielo dissi: non credo gli abbia fatto piacere, ma se lo aspettava».
Come ha vissuto gli ultimi anni?
«Lo andavo spesso a trovare negli ultimi giorni in Toscana, me lo ricordo sulla sedia a rotelle mentre recita i versi dell’Amleto. Non era abbattuto ma il suo cuore era stanco, non si risparmiava mai. Mordeva la vita: la sua più bella foto, un suo primo piano dove faceva il verso di ruggire, sì era un leone».
Un mattatore fino alla fine?
«Un attore che ha avuto la fortuna-sfortuna di vivere troppo a lungo, sbattendosi in tournée sfiancanti. E l’ultima volta che l’ho visto, voleva parlare di teatro: mi chiedeva come stavo per affrontare il personaggio di Filumena Marturano che avrei fatto con Liliana Cavani. Ma io non me la sentivo di parlare di me, vedendolo molto provato. E lui mi ha rimproverato, dicendomi: sto qui ad ascoltarti e non mi parli di teatro? Mi prendi per un rimbambito? Poi si è quietato, era cosciente di ciò che gli stava accadendo».
Aveva paura della morte?
«Per lui era un avvenimento importante, l’assoluto, un mistero che osservava a occhi aperti. Scherzava ironico: siamo agli sgoccioli, stiamo lì, lì... sta per arrivare. Non gli faceva paura, temeva solo che fosse accompagnata dalla sofferenza».
Avrebbe voluto morire in palcoscenico come Molière che, quando morì mentre interpretava il «Malato immaginario», il pubblico non se era accorto e mormorò: stasera è morto male, invece era morto davvero.
«Sì, credo gli sarebbe proprio piaciuto, infatti ha recitato, sia pure reggendosi a un bastone, fino all’estremo traguardo».