Il Post, 1 marzo 2023
Rifarsi una famiglia
Milano, primi anni Ottanta del secolo scorso. Sera d’estate. Siamo in una casa di ringhiera in pieno centro, in via Bergamini, a due passi dall’Università Statale. Palazzo ancora non ristrutturato (tutte le case di ringhiera sono poi state “gentrificate”, come si dice: risanate, rifatte, e il prezzo a metro quadro è triplicato) e dunque la composizione sociale degli abitanti è ancora popolare, o semi-popolare. Studenti in coabitazione, coppie di anziani, famiglie con bambini, negozianti e artigiani con bottega vicino a casa – parlo degli anni in cui c’era un elettrauto ogni duecento metri, le auto si mettevano in moto una volta sì, una volta no. Io conoscevo tutti gli elettrauto di Milano. Quasi personalmente.
Una casa di ringhiera è la cosa più simile a un teatro all’italiana che si sia mai vista, a parte i teatri all’italiana. C’è un cortile quadrato al centro, e su tre lati, a volte tutti e quattro, i ballatoi dove la gente si affaccia. Si affaccia, in via Bergamini, anche un cameriere del prestigioso ristorante Savini, in pensione da qualche anno. È un vecchio signore magro, elegante, gay secondo canoni antichi, parla come la Mabilia dei Legnanesi, con una cadenza meneghina invincibile, stratificata nei secoli. Si affaccia e grida, modulando con grazia canora, ma con una certa solennità:
«È PRONTO IL RISOTTOOOOO…».
I quattro piani prendono vita. Chi con un piatto, chi con un recipiente, chi con una bottiglia in mano, si va da quel numinoso dispensatore di vita a prelevare la propria parte da un pentolone enorme, a occhio più grande del bilocale dal quale è appena uscito, fumante. Si stappano bottiglie, si chiacchiera, qualcuno mangia in compagnia, qualcuno torna a casa sua. Non abitavo lì, ero ospite del mio amico Guido, che non c’è più. Mi disse che il risotto collettivo era un rito con cadenza settimanale – sempre che la Mabilia fosse in buona salute e di buon umore.
Perché vi ho raccontato questa storia? Intanto perché è bella. Allegra, conviviale. E volevo condividere con voi quel remoto profumo di cipolla soffritta, di burro mantecato e di zafferano che invade un intero caseggiato. Trasformandolo, almeno per una sera, in una famiglia molto, molto allargata. Poi perché mi sembra che abbiamo parlato di lavoro, fin qui, e di come cambia la percezione individuale del lavoro con il passare dei decenni, trascurando, o sottintendendo, il teatro del nostro discorso. I posti in cui viviamo. Come sono fatte le famiglie. I rapporti tra le persone. Perché non è cambiato solo il lavoro. È cambiata la nostra maniera di stare al mondo.
Anche qui, per carità: nessuna idealizzazione di “come eravamo”. Voglio dire: magari in via Bergamini, dopo il risotto, si prendevano a forchettate inseguendosi lungo i ballatoi. E ridiscendendo giù giù nel tempo passato fino alle mitiche famiglie contadine, decine di persone e tre o quattro generazioni sotto lo stesso tetto, non è difficile immaginare le prepotenze e le umiliazioni che le regolavano. Padre padrone – il libro e il film – dicono quanto la nostra idea di libertà individuale discenda dalla rottura netta, irriducibile, con molti di quei vincoli e di quelle soggezioni. Io sono mia, io sono mio. Bene, ci voleva, almeno questo l’abbiamo conquistato.
E però, grosso modo, l’idea che adesso si viva, nel bene e nel male, “più da soli”, in famiglie sempre più piccole, con un aumento impetuoso dei single, non è solo un’idea. È un dato Istat del 2022. I single, in Italia, sono ormai un terzo del totale dei nuclei familiari - e “famiglia di una sola persona”, faccio notare, suona come un ossimoro. Per la prima volta il loro numero ha superato quello delle coppie con figli, la famiglia classica, anche lei parecchio ridotta nel numero dei componenti.
Sempre grosso modo, e rimandando ogni volontà di approfondimento a fior di trattati di sociologia e ai faldoni dell’Istat, il passaggio, in un paio di generazioni e con una netta accelerazione negli ultimi anni, è stato da case affollate, da famiglie-comunità, appesantite dalla promiscuità ma avvantaggiate dalla mutualità, a vite molto più appartate, ben difese da intromissioni e impicci – più libere, insomma. Però molto più esposte alla solitudine.
In molte delle vostre lettere, specie quelle delle donne, soprattutto quelle delle giovani madri, questa nuova fragilità – questa nuova solitudine – fa spicco. Non più affollamenti di persone, però affollamenti di “doveri”, di scadenze, di fatiche, che gravano tutti interi su una sola agenda, al massimo su due: single e famiglie mononucleari molto ristrette sono la stragrande maggioranza. Così che il lavoro e il “resto della vita” si contendono l’energia e il tempo di una sola persona, che spesso è anche una persona sola. Al massimo due. E il lavoro ne esce inevitabilmente più ingombrante, direi più antipatico. Più capace di usurpare “il resto della vita”.
Se molte delle incombenze e dei problemi quotidiani da affrontare hanno perduto ogni possibile soluzione “di gruppo”, nonché gratuita (il cortile con i bambini badati dai vecchi è l’esempio paradigmatico; il risotto condominiale, lo avrete capito, è solo un riferimento mitologico, anche se accadeva per davvero), allora l’alternativa tra “lavorare” e “vivere” si drammatizza. Si radicalizza. O puoi comprarti la libertà e l’autonomia, pagando babysitter, nido, pagando TUTTO – ovviamente anche il risotto e il tempo che occorre per cucinarlo – oppure l’ansia di non farcela prende il sopravvento. E il tempo ti sembra corto come il tuo fiato.
Il single, si sa, è il Cliente Perfetto, il cittadino ideale della Repubblica dei Consumi: non potendo condividere alcunché deve comperare tutto, per questo nei supermercati proliferano, come una Lilliput incellofanata, la porzioncina, la fettina, l’insalatina in bustina, tutto “ina”. Ma – accetto scommesse – il single è anche il più grande consumatore di ansiolitici, o forse si contende il primato con le madri di famiglia stressate.
Questo era per dire che se mai riuscissimo a inventarci, un bel giorno, nuove forme di socialità, di comunità, di condivisione delle fatiche, infine nuove forme di famiglia, in luoghi e modi meno promiscui e opprimenti che in passato, ma fatti per condividere certi pesi, per affrontare certe prove insieme, magari il conflitto tra lavoro e vita perderebbe almeno alcuni dei suoi spigoli.
In quanto boomer di almeno una cosa mi sento in colpa, ma sul serio: avere accettato che tutto diventasse soldi, anche il risotto, e avere fatto troppo poco per cercare di impedirlo.
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Chissà se la vittoria di Elly Schlein c’entra qualcosa, o meglio c’entra ancora qualcosa, con la speranza di una nuova socialità. Ovvero: chissà se la politica c’entra ancora qualcosa con le nostre vite quotidiane e soprattutto con il famoso futuro, che da qualche parte sarà pure andato a cacciarsi, e dovrà pure sbucare fuori, prima o poi.
Da un po’ di tempo se ne era persa quasi ogni traccia, del nesso tra politica e vita. Io sono andato a votare alle primarie e ho votato per lei, lo dico contando sulla comprensione di chi non ci crede più e sulla sopportazione di chi la pensa diversamente. La cosa più stupida da dire è anche la cosa più vera: “è una ragazza”. È una ragazza, e mentre faceva il suo discorso di insediamento e i pixel del mio computer componevano il suo viso ancora intatto, un sorriso contagioso, io che sono vecchio pensavo: com’è giovane! Accidenti, come è giovane! Per adesso, su di lei, è tutto quanto ho da dirvi. E guardate, non è poco.
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Anche questa settimana, me ne rendo conto, Ok Boomer! parla dei massimi sistemi. Ma è anche colpa vostra e delle vostre lettere: se mi prendete sul serio, il rischio è che mi prenda troppo sul serio anche io. Prometto dunque, per rimediare a questa incresciosa autorevolezza, di occuparmi, nel futuro prossimo, anche dei minimi sistemi. Nel frattempo, subissato dalle mail (grazie! grazie!) bisogna che ci diamo qualche regola di ingaggio. Forse ne basta una sola: nessuno si offenda se non riesco sempre a rispondere a tutti, me ne manca il tempo materiale (a proposito di lavoro). Una risposta è una cosa seria, è brutto cavarsela con due righe formali tipo “la ringrazio della sua lettera, mi ha fatto tanto piacere leggerla”, segue firma. È anche per questa ragione che non sono nei social: se fossi Lady Gaga mi sentirei in dovere di rispondere personalmente a ognuno dei 140 milioni di follower che ha su Twitter e Instagram. I social sono un’impresa superiore alle mie forze.