Corriere della Sera, 1 marzo 2023
Illusioni antifasciste. Un saggio di Emilio Gentile
C’è stata una lunga stagione nel Novecento, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in cui sembrò che perfino il termine avesse fatto il suo tempo. Nel 1968 il collaboratore della International Encyclopedia of Social Sciences, Herbert J. Spiro, auspicò che – nella successiva edizione dell’Enciclopedia stessa – la voce «totalitarismo» venisse soppressa. In quello stesso anno Stuart Joseph Woolf – nell’introduzione ad un libro da lui curato, Il fascismo in Europa (Laterza) – scrisse che, per estensione, anche la parola fascismo forse doveva, «almeno temporaneamente», essere «bandita dal nostro vocabolario». Il termine fascismo, secondo Woolf, era stato in tale misura «caricato di accezioni nuove e più ampie che, per essere inteso nella sua accezione originaria, sembra ormai esigere dallo storico che lo si scriva tra virgolette, quasi a scusarsi».
Nel 1973 la rivista accademica tedesca «Neue Politische Literatur» decretò addirittura che il concetto di totalitarismo versava «in uno stato d’agonia». Dieci anni dopo la rivista tedesca si sentì costretta a riaprire uno spiraglio. Notò che dappertutto si tornava a parlare di «totalitarismo». E tornò sull’argomento per domandarsi se l’uso di quel termine stesse in qualche modo «rinascendo». Osservò lo storico Walter Laqueur che sarebbe stato sufficiente qualche anno per rispondere in modo convintamente positivo. Nel senso che si sarebbe tornati a parlare di «totalitarismo».
Emilio Gentile, da anni in battaglia per la «riabilitazione» e la valorizzazione di quel termine, in un prezioso libro che uscirà dopodomani presso l’editrice Salerno, Totalitarismo 100, spiega perché Laqueur ha avuto ragione. Quel «100» che compare nel titolo del libro sta per un secolo, nel senso che il «totalitarismo» entrò nel dibattito politico, «fu usato per la prima volta e probabilmente coniato» nell’Italia guidata da Benito Mussolini, tra il dicembre del 1922 e il gennaio dell’anno successivo. Cento anni fa. Nell’uso originario non fu riferito all’ideologia del fascismo, bensì – osserva Gentile – «unicamente alla sua azione pratica, compiuta come partito e come governo, per consolidare il potere conquistato, operando costantemente, con la violenza squadrista e con la repressione governativa al fine di rendere impossibile ogni attività e manifestazione politica ai partiti avversari, considerati nemici da eliminare».
In riferimento alla obiezione di Woolf, Gentile rileva che «non risulta che sia mai accaduto, nella storiografia che una parola o un concetto generati da una nuova realtà storica e adoperati per definirla, abbiano indotto qualche dotto studioso a concludere con la richiesta della messa al bando del concetto stesso» perché diventato «oggetto di controversie», perdendo «un significato condiviso». Se tale condizione fosse sufficiente per operare un tal genere di cancellazione, prosegue con ironia lo storico, allora dovrebbero «essere eliminati dalla storiografia concetti altrettanto controversi come despotismo, dittatura, libertà, rivoluzione, feudalesimo, rinascimento, capitalismo, democrazia, repubblica, bonapartismo, liberalismo, comunismo, socialismo, conservatorismo, radicalismo e tutti gli altri ismi della storia».
Successivamente il termine totalitarismo fu usato anche in riferimento all’Unione Sovietica. E, in seguito all’ascesa al potere nel 1933 di Adolf Hitler, per la Germania. Nel secondo dopoguerra, dopo il 1945, l’uso della parola «ha subìto una dilatazione inflazionistica, essendo applicato a movimenti, regimi ideologie, mentalità e comportamenti i più vari e diversi, fino a perdere il significato storico originario e la sua connessione con la cosa, cioè il fascismo, dalla quale aveva avuto origine». A partire dagli anni Cinquanta, nota polemicamente Gentile, «ci sono stati studiosi più o meno dotti, i quali senza avere un’adeguata conoscenza né della storia del fascismo né delle origini del totalitarismo, hanno negato la simbiosi tra fascismo e totalitarismo, sostenendo che il fascismo non fu totalitario e che pertanto non ha senso parlare di totalitarismo fascista». Riservando l’uso del concetto di totalitarismo in riferimento esclusivo allo stalinismo e al nazionalsocialismo.
Se torniamo ai tempi in cui si capì che cosa fosse davvero il «totalitarismo», è assai interessante la parte del libro che Gentile dedica ai mesi che intercorsero tra l’uccisione di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) e il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 con il quale il Duce rese palese il suo progetto politico dittatoriale. Nell’estate e nell’autunno del 1924 tutti (o quasi) gli antifascisti ritennero che per il regime mussoliniano fosse ormai giunto il giorno del giudizio. Scriveva Filippo Turati ad Anna Kuliscioff il 19 giugno del 1924: «Ormai il regime del crimine è minato da tutte le parti, in basso, in alto, a Corte, nel giornalismo, nella maggioranza … Scappano tutti, cominciando dagli industriali, sentono odore di morto». Due giorni dopo il leader socialista tornava su quella sua percezione: «Le notizie sono sempre buone, la baracca si sfascia, il mio ottimismo di avant’ieri non era un ottimismo di accidente e di comodo… Il capobrigante non conta più, non avendo più gli Interni e non potendo più rappresentare all’estero, ed essendo minato da tutte le parti; anche la Milizia perde valore».
Lo storico Guglielmo Ferrero – che aveva appena aderito al progetto di una Unione nazionale dei democratici promosso da Giovanni Amendola – si mostrava a sua volta ottimista: «Gli avvenimenti precipitano; il regime fascista ha ricevuto un colpo terribile; l’opinione pubblica comincia a capire l’orribile vuoto su cui l’Italia è sospesa con un governo inizialmente screditato da uno scandalo orrendo». Altrettanto fiducioso si mostra Luigi Salvatorelli. Luigi Ambrosini su «La Stampa» del 21 giugno parlava di una per lui già evidente «Caporetto del fascismo».
Anche per Ferruccio Parri «la sentenza di fallimento è stata pronunciata esplicita, definitiva, incancellabile». Per poi così proseguire: «quello che colpisce e colpirà mortalmente Mussolini è ora il disincanto, la diffidenza, la delusione, più o meno confessata, della grande massa; il crollo di quel piedistallo di fiducia inconscia, di ammirazione ingenua e quasi fisica, di stupore estatico sul quale larga parte del popolo italiano contemplava il suo duce dinamico agitarsi e recitare». Per Guido Dorso, «con l’attuale crisi politica e con i rimaneggiamenti teorico-pratici che il partito dominante è costretto a fare, si può dire sia segnato in maniera inequivocabile il crollo dello Stato-partito in Italia».
Gaetano Salvemini il 28 luglio sostiene che «ormai la bestia è ferita a morte e non ha molto tempo da vivere… darà ancora dei colpi furiosi pazzeschi come quello che costò la vita al povero Matteotti; ma più pazzie fa e più presto si rovina». Un mese dopo, il 28 agosto, Salvemini ribadirà quei concetti: «Siamo alla fine di questa disgustosa tragedia brigantesca e carnevalesca, la bestia è ferita a morte… Se non a novembre, a marzo sarà chiuso questo periodo vergognoso». E qui si affaccia una strana sensazione: «Dopo di che ne verrà un altro (periodo vergognoso, ndr) … forse peggiore». A metà di questo agosto 1924 si è tenuto il Comitato centrale del Partito comunista dove Antonio Gramsci ha annunciato che «il fascismo si esaurisce e muore perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse». Così quasi tutti gli antifascisti si esprimevano nell’estate successiva al rapimento e all’uccisione di Giacomo Matteotti.
Soltanto d’estate? No, scrive Gentile, nell’autunno successivo «le previsioni sulla prossima fine del fascismo assunsero tonalità di convinta certezza». Incredibilmente. Giovanni Amendola il 7 ottobre scrisse che «il torbido miraggio di un regime totalitario era svanito per sempre». E ne trasse conferma dal fatto che il 4 novembre «i fascisti aggredirono e bastonarono ovunque i reduci della Grande guerra, decorati, mutilati e invalidi che fossero, per impedire la loro partecipazione alle celebrazioni della vittoria». Tutto ciò per il fatto che l’Associazione nazionale combattenti aveva espresso il proprio dissenso nei confronti del governo mussoliniano. Stessa sensazione manifestarono don Luigi Sturzo, Claudio Treves, Vittorio Emanuele Orlando e con qualche maggior cautela il capo della destra liberale Antonio Salandra. Identici concetti si trovano ancora nel carteggio Turati-Kuliscioff. «Ogni giorno è un fatto nuovo, anzi molti fatti nuovi che confermano la putrefazione del cadavere e quindi la sua completa dissoluzione» era l’impressione del leader socialista. Il 23 novembre Amendola scriveva: «La giornata del fascismo sta per tramontare». E Turati da questa affermazione traeva il convincimento che «l’aurora» fosse «vicina». Quanto gli sembrava stesse avvenendo, insisteva Amendola, ha «l’imponenza e la vastità di una frana… che sta smantellando e raderà al suolo un edificio, non costruito sulle solide basi del consenso, e mal cementato dalle violenze esercitate sulle genti italiane».
Non tutti avevano idee chiarissime su quello che stava accadendo. Scriveva Antonio Gramsci: «Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati». Il leader dei comunisti nel settembre del 1924 valutava Amendola, Sturzo e Turati come «semifascisti» da «abbattere» né più né meno di Mussolini e Farinacci. Anche Amendola, pur più lucido, non aveva messo a fuoco alla perfezione il momento storico in cui si trovava l’Italia. Il 1° dicembre su «Il Caffè» contrastava l’ipotesi comunista di un’azione rivoluzionaria per abbattere il regime fascista con queste parole: «Un regime che sia la negazione del fascismo non si dà all’Italia con i colpi di mano, coltivando o tollerando il crescente pullulare nell’esercito antifascista di oscuri fermenti, lasciando maturare le cosiddette “situazioni” rivoluzionarie». Ancora: «Le “situazioni” rivoluzionarie nell’Italia di oggi si risolvono in situazioni confusionarie: Bengodi di tutte le scorie demagogiche». Per poi concludere: «Di fascismi è bastato il primo: non vogliamo un neo-fascismo antifascista». In quegli stessi giorni Turati scriveva alla Kuliscioff: «Ho veduto Amendola che era molto tranquillo… Egli pure prevede una soluzione prossima, tantoché ci si deve rivedere per intenderci se fossimo consultati e per agire d’accordo». Il 31 dicembre del 1924 Turati scriveva ancora alla Kuliscioff: «Ti prego di stare ancora tranquillissima, siamo quasi certamente alla fine dell’ignominia che soffriamo da tanto tempo». E invece la situazione stava per evolvere in peggio. Molto peggio.
Ma neanche il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 riportava gli antifascisti al principio di realtà. L’appropriazione fascista del termine «totalitario», scrive Gentile, «favorì la sua diffusione, soprattutto tra gli antifascisti, che l’adoperarono col suo significato originario per definire non programma e progetti del fascismo, ma la sua azione pratica e l’organizzazione del suo sistema di potere e di dominio». Gentile nota l’uscita in quello stesso 1925 di un libro scritto da Gustavo Ingrosso, un giudice napoletano militante dell’Unione nazionale di Amendola, La crisi dello Stato (Ceccoli). L’originalità del libro, sostiene Gentile, «era nell’uso che veniva fatto per la prima volta dei concetti di Stato-partito e di “prassi totalitaria”». Lo Stato fascista, scriveva Ingrosso, «si è rivelato essere non lo Stato forte che gli incauti fiancheggiatori del fascismo avevano sognato, ma nient’altro che lo Stato-Partito». Notevole intuizione.
Nel maggio del 1926 a Londra fu dato alle stampe in inglese il libro di don Sturzo L’Italia e il fascismo (ora ripubblicato dalle Edizioni di storia e letteratura). Mussolini, notava Sturzo, era dipendente dal re, ma il re non era «più moralmente libero di cambiare il capo del governo», poiché non aveva «nella struttura politica dello Stato, altra forza di equilibrio sulla quale poggiare per operare un cambiamento». Dopodiché il sacerdote antifascista si concentrava sulle analogie tra fascismo e bolscevismo pur considerandoli «fenomeni di eccezione». In quello stesso 1926 il giurista tedesco Hermann Martin stabiliva una volta per tutte: «I fascisti sono diventati padroni del potere in Italia, il loro sistema si chiama totalitarismo fascista». Finalmente qualcosa diveniva più chiaro.
Anche se nei decenni successivi a poco a poco andò smarrendosi la conoscenza di dove, quando e come la parola e il concetto di totalitarismo erano nati. Non era smarrimento di poco conto, conclude Gentile: «Non lieve è stato il danno che l’ignoranza delle origini della parola e del concetto hanno prodotto per la comprensione del fenomeno che all’una e all’altro aveva dato origine». Ma siamo ancora in tempo per porre riparo a quel danno. Quantomeno sotto il profilo storiografico.