il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2023
L’ultimo libro di Massimo Fini
Il primo che incontriamo nelle pagine di Cieco è quello che ci è più familiare. Il polemista implacabile, il giornalista senza peli sulla lingua, l’anticonformista incazzato che ricorda la sua carriera (questa a noi inedita) di morsicatore. E non ci riferiamo ai denti aguzzi con cui in mezzo secolo di onorata professione ha azzannato i bersagli delle sue invettive di carta. Parliamo di incisivi reali. La prima volta accade a un ballo delle debuttanti al Circolo della Stampa di Milano e la vittima del nostro indemoniato è un generale, di cui si sono smarrite le colpe: “Volendo imitare il principe Stavrogin – ero imbevuto di letteratura russa – gli morsi, non mi ricordo per quale disputa, un orecchio”. Della seconda vittima sono noti il nome e il torto: “A una manifestazione del Pci, alla presenza del segretario Enrico Berlinguer, morsi le due dita che Giulio Einaudi mi porgeva altezzosamente, come faceva con tutti, invece di dare la mano”.
Ma quasi subito, in questo libro che è piccolo solo per dimensioni e che esce oggi per Marsilio, incontriamo un Massimo Fini nascosto: un uomo che combatte, inciampa, scappa, si rassegna. Soprattutto soffre perché perde “lentamente, gradualmente, inesorabilmente la vista”. Il glaucoma gli viene diagnosticato nel 1985, lui ha 42 anni. Ma la malattia, che si affaccia già su un’infanzia torturata da visioni sfocate e dal complesso degli occhiali, è paziente e gli regala ancora del tempo buono, cieli stellati e belle donne da ammirare. “Gli anni successivi furono, a loro modo, esaltanti. Mi sentivo un cieco in libera uscita”. La materia è calda e lontana da quelle a cui ci ha abituato l’autore; invece lo stile, la sincerità a volte spudorata, certe illuminazioni improvvise, certe battute fulminanti sono l’anima della sua scrittura e s’incontrano anche in questo ultimo, personalissimo, lavoro. E allora ecco che “Beethoven è stato l’unico a non poter ascoltare la Nona mentre la componeva perché era diventato sordo, Galileo, cui piaceva guardare il firmamento, Dio negli ultimi anni della sua vita lo rese cieco, il più modesto Fogar, il cui mito era il movimento, l’ha paralizzato. E per quel che riguarda me, che sono un voyeur compulsivo, alla fine mi ha fatto cieco. Penso che abbia ragione Baudelaire: L’unica scusante di Dio è di non esistere”.
Si trovano anche spiegazioni alle scelte professionali (a quelle sentimentali meno, e – va detto – qualche fidanzata non la prenderà bene): “Il mio ‘realismo’ è stato sempre letterario, di seconda mano, di risulta. In compenso proprio l’impossibilità e, in seguito, la disabitudine a soffermarmi sui dettagli, mi ha facilitato la visione d’insieme. Per questo preferisco Dostoevskij a Tolstoj. Se avessi saputo dipingere sarei stato un impressionista. E anche come giornalista credo di appartenere a questa categoria. Ma se alla fine, complice anche il decrescere della vista, mi sono indirizzato verso l’opinione, la polemica, il pamphlet, il saggio è anche perché descrivere, narrare, era per me uno sforzo molto più innaturale che lavorare con i concetti, con le idee, con le astrazioni, con la logica”. Ma anche per fare il polemista rompiballe serve stare sul pezzo, aggiornarsi, leggere giornali, libri, riviste. E qui arrivano in soccorso le sopracitate fidanzate, una schiera di segretarie (non sempre all’altezza delle aspettative, e ti pareva) che negli anni hanno reso possibile ai molti fedeli di Fini continuare a leggerlo, qui sul Fatto e sul Gazzettino.
I suoi affezionati lettori ameranno il lato umano di queste pagine piene di spiagge e acqua salata – quasi tutti i ricordi visivi sono legati al mare, della Liguria, della Toscana, della Corsica, di Capri – di luce abbagliante – il sole è nemico degli occhi dolenti – di stelle davvero polari perché quando all’improvviso diventano sfocate indicano la strada del buio. Cosa resta quando non si vede più? Il ricordo, la fantasia? In Cecità Saramago avverte che non basta conoscere qualcosa “a occhi chiusi”: le frasi fatte non hanno sensibilità per le sottigliezze semantiche e ignorano la differenza tra il chiudere gli occhi ed esser ciechi. L’occhio non vede ma il cuore duole, e molto: la sofferenza Massimo la racconta senza lirismi e artifici, ma con i piedi ben piantati nel suo mondo nebuloso. È un mondo che si restringe progressivamente, perché sono sempre meno le cose che gli sono concesse: “Non è lontano il tempo in cui anche il quartiere mi sarà proibito. Sarò recluso nella mia casa. E, alla fine, nel mio corpo”. A questa frase ne segue un’ultima, che chiude il libro. Noi azzardiamo un finale alternativo, prendendo in prestito un “amore giallo” di Tristan Corbière: “Vedeva troppo. E vedere è cecità”. Un verso che si può leggere anche al contrario.