il Giornale, 28 febbraio 2023
Il servizio militare dei grandi
La noia-naja, il marmittone, gli imboscati, i riformati, il pernotto, le latrine, il Car, la fureria, la sussistenza, le manovre, le grandi manovre, il poligono, il sergente, il signor tenente, la fidanzata del signor tenente, la moglie del capitano... Finché è esistito il servizio militare con la sua tradizionale visita di leva, andare sotto le armi in tempo di pace è sempre stato un dovere forzato e raramente un piacere. Ragazzi di ogni estrazione si trovavano da un giorno all’altro precipitati in un universo chiuso fatto di regole tutte proprie e da dove era bandita la dialettica, agli ordini di chi, militare per scelta, vedeva più con fastidio misto a disprezzo che con professionalità, i civili lavativi da trasformare, almeno per un po’, in soldati. A volte li vedeva addirittura con rancore, se quella loro scelta si era nel tempo rivelata infelice. In un classico di metà Ottocento, Servitù e grandezza militare, Alfred de Vigny, che era stato per vent’anni sotto le armi, ma non aveva mai visto una battaglia campale, condenserà «nella noia e nella scontentezza i tratti comuni al volto militare», «una specie di gendarmeria» che prendeva il posto di quella che sarebbe dovuta essere una vocazione, il mestiere delle armi come un convento laico, «convento di uomini, convento nomade dove si adempiono felicemente i voti di Povertà e di Obbedienza».
Una sorta di romanzo militare sui generis è quello che adesso Giuseppe Scaraffia ci presenta nel suo Scrittori in armi (Neri Pozza, pagg. 202, euro 13,50), andando a ricercare nella moltitudine di coscritti di tutte le estrazioni sociali e di tutte le gradazioni ideologiche, quella particolare categoria più genericamente intellettuale da un lato, dall’altro più squisitamente legata a una condizione sentita come propria, anche se spesso ancora in fieri: romanziere, poeta, filosofo... Lo fa focalizzandosi su un arco di tempo che dagli anni Ottanta del XIX secolo arriva alla Prima guerra mondiale (con però un’appendice che giunge a toccare la Seconda...), sufficientemente lungo quindi e coincidente con quel quarantennio che da Sedan a Sarajevo vide la pace nel Vecchio continente e quindi il mestiere delle armi privato comunque della sua materia prima, un po’ come era successo al povero de Vigny, che aveva indossato la divisa sull’onda seduttiva delle imprese napoleoniche per poi ritrovarsi a fare il cane da guardia della Restaurazione prima, della monarchia borghese di Luigi Filippo dopo, un secondino, non un guerriero...
Il parterre selezionato da Scaraffia è imponente, da Nietzsche a Proust, da d’Annunzio a Thomas Mann, a Jünger, a Zweig, a Rilke, a Freud, per non dire di Hemingway e di Scott Fitzgerald, e pieno di sorprese.
Prendiamo per esempio Marcel Proust, ovvero la summa del dandismo e dello snobismo. Nella sua scelta di andare già diciottenne sotto le armi, c’era comunque un calcolo: quando nel 1899 si arruolò poteva ancora beneficiare della legge, destinata a scadere l’anno dopo, che consentiva ai volontari di fare soltanto dodici mesi sotto le armi, rispetto ai cinque anni di prammatica. Erano i cosiddetti «Soldati semplici di lusso», una sorta di allievi ufficiali, però senza mostrine, il cui mantenimento e relativa divisa era a carico della famiglia. Il suo soffrire d’asma gli aveva permesso di dormire in albergo e non in caserma e di non partecipare alle adunate mattutine... Ogni domenica, da Orléans, dove era di stanza, andava in permesso a Parigi e lo stesso faceva a ogni licenza... Rispetto all’affettuosa rete di regole che dominavano in casa la sua vita da civile, in fondo Proust aveva trovato la disciplina militare per nulla opprimente: era bastata una caduta da cavallo, per esempio, perché venisse esonerato dal salto degli ostacoli... Avere una vita calma e regolare gli si confaceva, «perché in essa il piacere ci accompagna con più naturalezza dato che non si ha mai il tempo di sfuggirgli cercando di rincorrerlo».
Durante i permessi, racconta Scaraffia, la sua apparizione nei salotti «faceva uno strano effetto, con il cappotto militare sbottonato e la giubba troppo larga. L’alto copricapo della fanteria stonava irrimediabilmente con l’ovale perfetto della sua faccia da giovane assiro».
Nonostante la sua buona volontà, in realtà l’esercito non sapeva cosa fare di lui. Avevano provato con il lavoro d’ufficio al Quartier generale, ma la sua smania calligrafica aveva esasperato i superiori; l’idea di farlo attendente di qualche ufficiale si era scontrata con il fatto che aveva difficoltà nel rifare i letti... Alla fine era risultato trentacinquesimo dei trentasei che con lui avevano fatto il corso, il che accende la curiosità di sapere chi fosse l’ultimo in classifica... Ciononostante, aveva persino cercato di prolungare la ferma, anche se solo di qualche mese: «Al reggimento, finito il mio periodo, mi amavano tanto e sentivo di essere talmente utile che non volevo andarmene». Come nota Scaraffia, «quell’esperienza era stata un ultimo tentativo per rientrare nella normalità sfuggendo a un destino ancora imprecisato, ma già incombente».
Dandy e snob era anche Gabriele d’Annunzio, che però a differenza del Proust diciottenne, di anni ne aveva già ventisei ed era appena reduce dal successo di Il piacere. «Diciotto mesi in caserma!» aveva scritto angosciato a un amico, ovvero «una visione terribile della vita che mi aspetta: non sarò più un uomo, ma un bruto come il mio cavallo, tra i bruti!».
Le lettere di d’Annunzio militare suo malgrado sono una litania di imprecazioni miste a sconforto: «Il mio peggior nemico non avrebbe potuto immaginare per me un supplizio più feroce, più disumano... Io sono schiavo. Ho perduto ogni libertà, ogni dignità d’uomo».
Il problema principale, chiosa Scaraffia, era che poteva vedere solo di rado la sua amante Barbara Leoni, Barbarella, nonché essere costretto «all’inevitabile, incessante, presenza degli altri», ovvero «l’orrore provato fin dai primi anni d’età, dell’odore del prossimo, dell’aspetto del prossimo, della vicinanza e del contatto di un estraneo».
Il bello è che nel reggimento dei Cavalleggeri d’Alessandria dove prestava servizio, d’Annunzio era divenuto prima caporale e poi sergente, superando i relativi esami, tanto da congedarsi infine come sottotenente. E tuttavia, il colpo di grazia gliel’aveva dato un superiore proprio nel promuoverlo: «Bravo! Continuate a studiare. Forse un giorno potrete diventare uno scrittore come Edmondo de Amicis. La stoffa c’è». De Amicis a lui? C’era da impazzire...
Quello degli odori, meglio, delle puzze del servizio di leva, è comunque una costante. Come elenca Scaraffia, Hofmannsthal si lamentava di quello infetto delle camerate. Il fetore delle brande teneva sveglio Paul Valéry. Tutto contribuiva a creare quelle tipiche esalazioni ricordate da Giorgio De Chirico: «Appena mi approssimavo a una caserma avevo subito le narici gradevolmente stuzzicate da un puzzo che giungeva a zaffate e in cui in una bella sinfonia si mescolavano l’odore delle gavette unte, dei piedi non lavati, dell’acido fenico, della creolina e del caffè tostato». Era una condanna a cui non sfuggivano nemmeno i più azzimati, come Georges Simenon, per esempio, che si era fatto fare dei pantaloni di lucida gabardine di seta e aveva una divisa tagliata su misura, opera di un sarto alla moda di Liegi. Il fatto è che passando le sue giornate nelle scuderie in quanto palafreniere, anche in libera uscita e tutto profumato, «non si accorgeva del sentore insopportabile di letame che lo seguiva dovunque».
In alcuni degli scrittori raccontati da Scaraffia, l’essere medici, è il caso di Freud, di Schnitzler, aveva attutito il colpo: in fondo la loro uniforme restava il camice bianco... Per quelli che avevano una concezione della vita più avventurosa che sognatrice e/o contemplativa, i Rimbaud, gli Jünger, l’arruolarsi, specie nella Legione straniera, aveva soprattutto senso nel preparare la successiva diserzione, l’attrazione dell’ignoto per definizione, mentre per uno come Jean Genet era un modo per uscire dal carcere, uscire dalla Francia, andare oltremare, arruolarsi, disertare, riarruolarsi...
Il miglior riassunto della naja è in una poesia di Drieu La Rochelle, uno che quando poi ci sarà la guerra, farà coraggiosamente il suo dovere di soldato, con tanto di ferite e di decorazioni. Non a caso la poesia si intitola Caserma odiata: «Là dentro abbiamo agonizzato e odiato/ abbiamo dubitato e disperato/ abbiamo sciupato la nostra giovinezza/ Ci siamo annoiati».