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 2023  febbraio 28 Martedì calendario

Sui pattini nella biblioteca di Umberto Eco

«Questi» dice Carlotta Eco, «papà non li usava mai» e ripone sul tavolo un paio di sottili guanti bianchi, di quelli con cui i bibliofili maneggiano i libri preziosi. Il tavolo è nello studiolo in cui suo padre Umberto conservava e consultava la propria «Bibliotheca semiologica, curiosa, lunatica, magica et pneumatica», appunto senza usare i guanti. Lì non portava mai computer o telefoni: ci andava a studiare, si esercitava al flauto dolce, selezionava i visitatori da ammettervi. Era insomma un luogo intimo, né poteva essere altrimenti, sostenendo Eco la biblioteca essere memoria e la memoria anima. Fin oltre la soglia di questo penetrale tanto esclusivo si è però spinta la macchina da presa del regista Davide Ferrario, per girare una parte delle scene del film Umberto Eco — La biblioteca del mondo che ora giunge nelle sale: ha percorso in verticale gli scaffali, è scivolata su coste di rilegature accurate, ha registrato la presenza di suppellettili bizzarre, tra cui un’ampolla che conserva testicoli di cane. Allo spettatore rende il senso di un’esperienza immersiva e privilegiata.
Nella casa di Eco (piazza Castello, Milano), con lui dentro, Ferrario aveva già lavorato nel 2015. Quell’anno il Padiglione Italiano della Biennale Arte di Venezia era curato da Vincenzo Trione che aveva proposto al regista di realizzare una videoinstallazione sul tema della memoria: un’intervista a Eco e una sua passeggiata tra gli scaffali gremiti della biblioteca di casa, seguito dalla camera di Ferrario in semisoggettiva. Nel febbraio del 2016, un anno dopo, Eco morì e siti e tv lo omaggiarono mostrando proprio quella sequenza, con lo studioso che incede in un labirinto biblioteconomico di cui è il solo a conoscere l’ordinamento cioè quelle regole di buon vicinato tra libro e libro che ne hanno disegnato imeandri.
Memoria e anima, o suo specchio, la biblioteca: ma anche mondo. Sulla convergenza dei due principi Ferrario ha impostato il suo film-ritratto, che propone quattro generi di materiali. Spezzoni di repertorio in cui si rivede Eco a ogni età, in interviste e interventi in Italia o all’estero. Brevi monologhi di attori che recitano suoi testi. Silenziose nature morte dei suoi libri e riprese mozzafiato di biblioteche storiche e contemporanee, in Italia e nel mondo. Interventi dei famigliari: la moglie Renate, i due figli Stefano e Carlotta, i tre nipoti Emanuele, Pietro e Anita, infine l’allievo e collaboratore di lungo corso Riccardo Fedriga, che funge da guida alla biblioteca e alle illustrazioni più sorprendenti contenute nei libri, come l’Arca di Noè o la Torre di Babele immaginate con scrupolo fantafilologicodal prediletto Athanasius Kircher. Illustrazioni che, racconta il nipote Emanuele, il nonno gli mostrava al posto dei cartoni animati — in particolare ilGiardino degli scheletri del Thesaurus Anatomicus di Frederik Ruysch. «Sai quanti incubi ci ho fatto?», chiede a Fedriga ora Emanuele, ventenne e ironico.
I titoli delle tre sezioni in cui si articola il film sono verbi all’infinito: Ricordare, Raccontare, Mentire. Trattandosi di audiovisivo non sono lemmi sostanziali a cui dare definizioni enciclopediche e approfondimenti saggistici bensì zone su cui accendere di taglio la luce di una battuta, di un’immagine, di un riferimento. I discreti colpi d’occhio su come Eco facesse il nonno, sul modo di comunicare sempre divertito e spesso paradossale («L’amore è selettivo: se io amo te non voglio che altri ti amino, tranne me»; invece«l’odio è generoso, è caldo »), sul suo distacco dalla chiacchiera del mondo e sulla capacità di metterne a nudo le logiche bacate fanno di questo ritratto un’opportunità sinora inedita e insperata di incontrare la persona di Eco. Non è infatti facile ritrovarlo nella vulgata standard con cui i mass-media lo raccontano: schernitore di Mike Bongiorno, percettore dei diritti del Nome della Rosa , semiostar da prima pagina. La costruzione narrativa di Ferrario è discreta e fantasiosa e rende il soggetto assai più riconoscibile per come era davvero, nella sua dimensione internazionale, nient’affatto pettegola, ma sempre arguta e tanto spesso spiazzante nella sua profondità.
Eco era Eco tra i suoi libri e tra i suoi cari a Milano, tra i suoi studenti e gli allievi ormai colleghi a Bologna. Lo si vedeva in piena echitudine anche quando capitava di incontrarlo in stazione, in aeroporto, all’estero, in missione per conto di sé stesso. Eco è Eco seduto su una sedia nel prato della sua casa di campagna, mentre guarda in camera e dice sorridendo, come se parlasse del meteo, di nulla, dell’ovvio: «L’animale umano ha la capacità di poter pensare e comunicare l’assenza ». Tra i suoi libri ora l’assente è lui ed è la sua assenza che parla in tutto il film di Ferrario. Film avvincente proprio perché non pretende di restituire una vita di pensieri, ricerche, invenzioni ma ne mostra laconicamente gli esiti magari imprevisti, nelle facce dei superstiti, nella piega che le cose prendono quando le si è lasciate, negli oggetti muti delle stanze oramai meno abitate di prima.
John Cage, vecchio amico di Eco, diceva che i musei vanno attraversati su pattini a rotelle. Nelle ultime sequenze del film la voce del professore parla ancora ma a rifare la sua passeggiata tra i libri, nella casa silenziosa, ora c’è la nipotina Anita, intenta e spensierata, sui suoi roller.