La Stampa, 28 febbraio 2023
Pupi Avati ricorda Lucio Dalla
Il primo pensiero è semplice, stringato: «Lucio? Il talento allo stato puro». Poi ne vengono tanti altri, mescolati alle memorie, alle verità, alle confessioni: «Tutte le persone che lo hanno conosciuto gli hanno voluto bene, non ho mai sentito nessuno parlar male di lui, e questa, in un mondo in cui non si vede l’ora di poterlo fare, è la cosa più bella che si può dire». Il 4 marzo Lucio Dalla avrebbe compiuto 80 anni e, in questi giorni di omaggi e celebrazioni, l’amico Pupi Avati, di pochi anni più grande, lo ricorda con il nitore dei ricordi lontani, quelli più lucidi, più sinceri, proprio perché parte di un altro tempo.
Qual è la prima immagine di Dalla?
«Lo rivedo bambino, a 3-4 anni, sul palcoscenico dei teatri di Bologna dove era la star, cantava, ballava, zampettava, chiudeva lo show in un tripudio di successo, frac e il cilindro in testa. Sui manifesti dello spettacolo parrocchiale della domenica il nome più grande era il suo. Era l’attrazione della serata, un bambino bellissimo, travolgente, avremmo voluto essere tutti come lui e, infatti, per tutta la mia vita, ho desiderato essere Lucio».
Una specie di bambino prodigio?
«C’è uno studio americano secondo cui i bambini prodigio nascono con una competenza che non è spiegata dall’applicazione su un determinato tema, ma è insita, in sé, e ha a che fare con la telepatia. Il bambino prodigio assorbe il sapere del suo tempo, ci ho pensato quando ho fatto il film su Mozart da piccolo. A 14 anni Mozart aveva memorizzato una partitura del "Miserere" e l’aveva trascritta. Lucio aveva in sé qualcosa di misterioso e sacrale, la sua era un’intelligenza speciale, era una sorta di tuttologo, capiva di tutto, quando vedeva i miei film scopriva cose che io stesso non sapevo di averci messo».
In che modo è cresciuto Lucio Dalla?
«La parabola di Lucio è stata come un viaggio siderale. Dopo la stagione d’oro dei teatri parrocchiali ha avuto una penalizzazione fisica esplicita, che ha gettato nel panico la madre. Lucio non cresceva, la mamma gli fece fare una cura a base di ormoni che in qualche modo lo ha compromesso. Non solo non è cresciuto, ma a un certo punto Lucio è diventato ispido, peloso. Non so se questo mutamento abbia avuto riflessi in ambito sessuale».
In che senso?
«A Lucio, nel periodo in cui suonavamo insieme, piacevano moltissimo le ragazze, era un assatanato delle donne, era innamorato pazzo della sorella dell’impresario Cremonini, l’attrazione per il mondo femminile era in lui presente e inequivocabile. Poi, a un certo punto della sua vita, qualcosa cambiò. È una storia che ho in qualche modo trasferito nel mio film "Regalo di Natale", ho raccontato il cambiamento di sessualità di uno degli amici. Allora era diverso, non è come oggi, certe cose si vivevano con impaccio e imbarazzo. Lucio chiuse tutti i rapporti con le persone del prima, credo anche un po’ per quella ragione. È un problema che tutti noi amici abbiamo vissuto, io di sicuro. Con Lucio, in tutta la mia vita, ho parlato di qualunque cosa, tranne che di questo aspetto. Mai».
Quando vi siete persi di vista?
«Il mio Lucio si chiude una sera in uno dei locali più eleganti di Bologna, si chiamava "Wisky a gogò". Ci esibivamo insieme, a un certo punto ci dicono che in sala c’è Gino Paoli, allora una grande star, cerchiamo di suonare nel miglior modo possibile. Alla fine arriva un cameriere e ci dice che Paoli voleva parlare a Lucio. Quella sera è nato il Lucio cantante. Con noi, fino ad allora, faceva "scat", quel virtuosismo jazz in cui si canta imitando gli strumenti musicali, Paoli ne era rimasto colpito, gli fece incidere il primo disco. Noi amici, da quella sera, lo abbiamo perso».
Quando vi siete rivisti?
«L’ho chiamato per recitare nel mio film "La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone". Volevo dimostragli che anche io, nella vita, avevo fatto qualcosa. Lucio è sempre stato di un’enorme generosità professionale, non economica… da ragazzi, a Bologna, lo chiamavamo tutti "il ragno" perché non aveva mai offerto un caffè a nessuno, era di una tirchieria pazzesca».
Qual era la sua caratteristica artistica più marcata?
«Aveva una creatività spontanea, in tutto quello che faceva, in qualunque ambito, era sempre diverso dagli altri, come se fosse survoltato. Forse proprio questo suo aver vissuto così tanto, in ogni momento dell’esistenza, gli ha fatto consumare la vita in fretta, è come se fosse arrivato prima alla fine del percorso. Quando ha girato con me, nei due film "Gli amici del Bar Margherita" e "Il cuore grande delle ragazze", l’ho avuto accanto per tanto tempo, mentre suonava, in sala di incisione, mentre mi proponeva le musiche, e ho notato, già allora, che i segni dei suoi problemi di salute erano evidenti. Lucio si era sempre dato molto, mi invitò a uno dei concerti con De Gregori, Lucio si dava dieci volte di più di tutti gli altri. Alla fine era svuotato".
Aveva conosciuto anche il suo compagno Marco Alemanno?
«Si, e ho trovato veramente poco elegante la rimozione che è stata fatta di lui, della sua figura. Una forma di censura, di Alemanno non c’è un ricordo, una foto, qualcosa, e, invece, per Lucio, era stato importantissimo. Ricordo ancora la volta in cui sono andato a trovarlo a Bologna per proporgli di fare le musiche del "Bar Margherita". Andai a casa sua, mi fece trovare Marco vestito in modo curatissimo, a mio avviso anche truccato, mi disse che aveva preparato una cosa per farmelo conoscere. Fu un incontro alla Buñuel, Lucio seduto al pianoforte in estasi, questo ragazzo che recitava un testo appassionato, io imbarazzatissimo perché, come si sa, amo la recitazione naturalistica e mi sentivo all’altro capo del mondo. Negli occhi di Lucio c’era un amore, una commozione, da lì ho capito quanto fosse pazzamente innamorato di Marco, ho pensato all’ "Angelo azzurro"… sulla sua richiesta ho glissato, gli ho detto che per il film Marco non andava bene, era una commedia e un personaggio così non c’era, ma so di aver dato a Lucio un grande dolore».
Avete mai parlato di politica?
«Mai, non sapevo nemmeno per chi votasse, non abbiamo mai affrontato il tema politico, eppure abbiamo vissuto in anni pieni di avvenimenti, complicati, dal dopoguerra agli Anni di piombo e così via».
E di religione?
«Lucio era molto legato alla spiritualità, all’idea religiosa del dopo, dell’aldilà, un’attitudine rara. Perfino per chi, come me, vuole essere credente, è difficile essere convinto che arriverà un momento in cui potrò rivedere mia madre. La mia ragione mi censura, vorrei crederci, ma non ci riesco. In Lucio questa fiducia c’era. Quando morì sua madre, cui era affezionatissimo, fece fare al carro funebre l’intero giro dei colli bolognesi in modo, mi disse, che potesse vedere Bologna da tutti gli angoli. Lucio andava sempre a messa, era un praticante assiduo, aveva il senso del sacro e lo si avverte in tante sue canzoni. Per essere poeti bisogna avere quel senso, bisogna riuscire ad andare oltre l’area del pensabile. Un’area che è in ognuno di noi, ma che in Lucio formava un tutt’uno».