il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2023
Le condizioni economiche per la pace
Il titolo dell’appello è “The Economic Conditions for the Peace” (le condizioni economiche per la pace) in cui molti sentiranno l’ovvio eco di The Economic Consequences of the Peace (le conseguenze economiche della pace), il pamphlet con cui John Maynard Keynes nel 1919 tentò di evitare all’Europa l’errore di impoverire e umiliare la Germania dopo la Grande Guerra. L’appello di cui parliamo invece – sottoscritto in tutto il mondo da decine di economisti e pubblicato per la prima volta sul Financial Times il 17 febbraio – tenta di mettere in guardia i decisori politici dal cedere a semplificazioni infantili tipo “scontro di civiltà” e a concentrarsi (anche) sulle dinamiche oggettive che hanno portato nel cuore d’Europa una guerra pericolosamente vicina a divenire un conflitto globale.
I promotori dell’appello sono Robert Skidelsky dell’università di Warwick e Emiliano Brancaccio dell’Università del Sannio ed è a quest’ultimo che abbiamo chiesto di spiegare il senso dell’iniziativa: “La Russia si è macchiata di un’infamia di cui noi occidentali siamo stati cattivi maestri per anni: aggredire altri Paesi per distruggere e controllare. Rispetto al passato, però, c’è una novità. L’invasione russa dell’Ucraina ha attivato una catena di azioni e reazioni ancora più letale, perché trae linfa da contraddizioni economiche di dimensioni mondiali, che vanno esaminate e affrontate”.
Partiamo intanto dalle “condizioni economiche per la guerra”. Quali sono?
L’epoca della globalizzazione liberista ci ha lasciato un’eredità scomoda: un grande debito estero a carico degli Stati Uniti e di vari Paesi occidentali, a fronte di un notevole credito verso l’estero a favore della Cina, dell’oriente e, in parte, della Russia. In questo grande squilibrio la Cina e altri Paesi orientali avrebbero la possibilità di esportare i loro ingenti capitali a ovest, non più solo per erogare prestiti ma anche per effettuare acquisizioni di aziende occidentali: una “centralizzazione del capitale” in mani orientali. Questa tendenza, però, a Ovest non è affatto gradita. Per contrastarla, da diverso tempo gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno abbandonato la vecchia dottrina liberista e hanno svoltato verso il “friend shoring”: un protezionismo commerciale e finanziario aggressivo, che mira soprattutto a bloccare l’ingresso di capitali cinesi e orientali. È bene chiarire che questa politica è iniziata ben prima della guerra in Ucraina: in un certo senso, quelle che oggi chiamiamo “sanzioni di guerra” non sono altro che una prosecuzione della svolta protezionista occidentale.
Quali sono stati gli effetti di questa svolta?
Purtroppo, il tentativo occidentale di rimediare agli squilibri della globalizzazione con una svolta protezionista scoordinata ha attivato una catena funesta di reazioni e controreazioni ostili. Bisogna partire da qui per cogliere i dissidi economici che stanno alimentando le tensioni militari a livello mondiale.
Dunque la “vecchia” globalizzazione è morta o moribonda: siamo di fronte a una deglobalizzazione a colpi di cannone?
Prima la globalizzazione capitalistica deregolata crea enormi squilibri, poi la deglobalizzazione unilaterale pretende di risolverli alzando muri. A quel punto, si fa forte la tentazione di aprire varchi all’esportazione di capitale attraverso le truppe e i cannoni. Sebbene la storia non si ripeta mai uguale a sé stessa, purtroppo non si tratta di un inedito assoluto: tracce di questa sequenza si ravvisano nel primo decennio del secolo scorso e tra le due grandi guerre.
Per creare le condizioni economiche per la pace, voi proponete “un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union”. Di cosa parliamo?
Servirebbe un piano per la regolazione politica degli squilibri economici internazionali, che si basi su un controllo coordinato dei movimenti di capitale e su un meccanismi condivisi di riassorbimento dei crediti e dei debiti. Alla conferenza di Bretton Woods del 1944 Keynes avanzò una proposta del genere, che tra l’altro prevedeva che i Paesi creditori partecipassero al riequilibrio internazionale aumentando le loro spese e quindi anche le loro importazioni dall’estero, così da ridurre i debiti degli altri Paesi. Potremmo definirla una regolazione “illuminata” del capitalismo. All’epoca si arrivò a discuterne solo dopo due guerre mondiali e sotto il pungolo della minaccia sovietica. Oggi è ancora più difficile. Quel che è certo è che per avviare una trattativa del genere gli Stati Uniti e l’Unione Europea dovrebbero innanzitutto abbandonare il protezionismo unilaterale del friend shoring, mentre la Cina dovrebbe metter da parte la retorica globalista, che è origine e non soluzione dei problemi.
Certo un appello male non fa, ma pare un atto rituale, specie mentre parlano le armi. Perché invece lo ritenete utile?
Gli studiosi firmatari sono maestri di realismo, non pensano certo di fermare le armi con un appello. Lo scopo dell’iniziativa è un altro. Noi denunciamo che il dibattito prevalente sta trascurando le enormi contraddizioni economiche alla base dei conflitti in corso. Eppure, la storia insegna che ai tavoli delle trattative le questioni territoriali sono le più visibili, ma i temi economici sono quelli decisivi. Finché non vengono affrontati, sarà difficile avviare una realistica opera di pacificazione mondiale.
Al momento, la strategia occidentale si basa tutta sull’invio di nuove armi all’Ucraina. Perché è una linea sbagliata?
È sbagliata soprattutto se non viene accompagnata da un’iniziativa diplomatica. Noi pensiamo a una disponibilità occidentale ad aprire un tavolo di trattative per rivedere il protezionismo unilaterale del friend shoring. Questo è un nodo da sciogliere, se si vogliono davvero allentare le tensioni. Soprattutto con la Cina, che è un attore chiave di questa tremenda partita globale.
La Cina ha appena pubblicato un position paper sulla guerra in 12 punti, alcuni dei quali intersecano il vostro appello. Al punto 11, in particolare, Pechino chiede di “preservare l’attuale sistema economico mondiale” e le relative catene mondiali della produzione.
In linea di principio si tratta di un buon segnale. Ma se lo scopo cinese è “preservare” il sistema deregolato che abbiamo ereditato dagli anni della globalizzazione, si tratta di una posizione a sua volta insostenibile. Del resto, è un’altra bizzarria di questo tempo che un Paese a guida definita “comunista” si faccia oggi alfiere del libero mercato globale. Per la pace serve più politica, non più mercato.