il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2023
Biografia di Lidia Poët
E ssa arriva, e un lungo applauso l’accoglie appena mette piede nel salone. Quell’a pplauso la fa diventar rossa rossa come una fragola. Veste modestamente, ma non priva di eleganza: una sottana di lana scura e una giacchettina nera; colletto e polsini molto alti: un cappellino di feltro e velluto fra il verde o il nero. Dà uno sguardo attorno, ma quasi furtivo, come avesse paura di veder troppi occhi fissi su lei”. A essere descritta dalla Gazzetta Piemontese del 24 novembre 1885, in occasione del terzo congresso penitenziario internazionale di Roma, non è una vamp mangiauomini, ma una “t i mi d a dottor essa”: si chiama Lidia Poët, a quell’incontro è relatrice sul tema “E d u ca z i o n e nelle carceri”. Nata nelle Valli Valdesi (a Traverse di Perrero, nel Pinerolese), nel 1855, e morta a Diano Marina nel 1949, si distinse nelle battaglie per l’emancipazione femminile, oltre che per la tutela dei minori, nel diritto penitenziario, nell ’assistenza ai più deboli. Soprattutto fu la prima donna a diventare avvocata nel Regno d’Italia, la prima in Europa a chiedere di esercitare l’av – vocatura. Ci sarebbe riuscita solo nel 1919 grazie alla legge Sacchi, dopo che la Corte d’appello di Torino aveva annullato nel 1883 la sua iscrizione all’Ordine forense. La Gazzetta Piemontese scriveva ancora “che la timida d o tt o r e s s a”, dopo il suo intervento, “crede di potersi ormai a l l on t a n a re”, ma “si alza dal seggiolone d’oro il senatore de Foresta, che vuole anche lui salutare questa docteur dame”. Quella era dunque la Poët, la stessa che è stata ben raccontata da Cristina Ricci in Lidia Poët. Vita e battaglie della prima avvocata italiana pioniera dell’ema nci pazione femminile (L ar Editore- Graphot). Il suo saggio storico e biografico nasce da una approfondita ricerca tra archivi, biblioteche, carte di famiglia, in cui è messo in rilievo quel liberale mondo valdese, assai più avanzato sui diritti rispetto al resto dell’Italia, che influì sulla formazione di Lidia. Le italiane e gli italiani di oggi, e gli altri spettatori di Netflix nel mondo, però, stanno conoscendo un’altra Lidia Poët. Una tutta sesso e indagini poliziesche degne di Sherlock Holmes, tra rivoltelle, bestemmie e vita assai sopra le righe. Appare così nella serie su Netflix La legge di Lidia Po ë t. Sarà pure la terza più vista al mondo tra quelle distribuite dal gigante americano, come viene detto, tuttavia c’entra poco o niente con la prima avvocata d’Italia. Commenta Cristina Ricci: “Ne l l a serie tv l’unica cosa vera è la lettura della sentenza della Corte d’appello. Tutto il resto è pura fantasia, a cominciare dalla citata opposizione della famiglia alle scelte di Lidia, quando invece l’appog giò sempre. Il mondo valdese, poi, così importante, è scomparso nella fiction. Penso che alla Poët, che subì in vita non pochi torti, sia stato reso un pessimo servizio. La sua memoria è stata stravolta. E offensiva è l’immagine della donna offerta dalla serie tv, come se solamente facendo molto sesso, tra scene di nudo, turpiloquio e bevute, si potesse essere donne emancipate”. Le fa ha fatto eco, su La Stampa, Marilena Jahier Togliatto, una delle ultime discendenti della Poët: “In quella serie tv non c’è nulla della mia parente Lidia. Ne ho vista una sola puntata e poi ho abbandonato per sdegno”. Un conto è una fiction, un altro è la Storia, certo. Ma un conto è pure prendersi qualche licenza, mentre un altro è falsificare la realtà. La serie Netflix ha raccontato una Lidia del tutto immaginaria. Non di sicuro la donna che, come annota Simona Grabbi, presidente del consiglio dell ’Ordine degli avvocati di Torino, nella prefazione al libro della Ricci, “grazie alla sua intelligenza, al suo attivismo, alla sua tenacia, è riuscita, precorrendo i tempi, a perorare, con successo, la battaglia dell ’integrazione della figura femminile nel campo della gius tizia”. La donna, insomma, che con “la sua esperienza e professionalità in favore del diritto all’istruzione presso gli istituti penitenziari brillantemente sostenuta nei plurimi congressi europei, antesignana del contenuto dell’art. 27 della Costituzione in punto a rieducatività della pena”. Ha scritto Maurizio Crippa su Il Foglio:“Viviamo nell’è ra delle docu-drama, delle autofiction, di narrazioni che hanno sempre bisogno di qualche fuga dalla realtà persino se raccontano il mostro di Milw a u ke e”. E Maria Fida Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, ha affermato su Esterno notte, il film su Aldo Moro di Marco Bellocchio: “O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace”. © RIPRODUZIONE RISERVATA