il Giornale, 27 febbraio 2023
Gli ucraini, prigionieri di Mosca, confessano i loro crimini
«Ogni notte rivedo i volti delle mie vittime. Ogni giorno prego il Signore di cancellarmeli dalla mente. Ma è la mia pena. Quella vera. Appena chiudo gli occhi tornano ad inseguirmi». Fino allo scorso maggio Sergey Batinsky, 37 anni, era un tenente della 36ma brigata di Marina ucraina. Oggi è un prigioniero del penitenziario russo di Gorlovka, una desolata cittadina a metà strada tra Donetsk e Bakhmut bersagliata dall’artiglieria di Kiev. Ma il vero assillo di Sergey non sono né le bombe, né il carcere. «Mi sono arreso il 18 maggio assieme ai combattenti dell’acciaieria Azovstal. Ho confessato tutto, ma non è servito», sospira. «Le mie vittime mi vengono a svegliare ogni notte, mi guardano da dietro le sbarre». Abbassa la testa, si asciuga gli occhi.
L’ufficiale dell’intelligence di Mosca mandato a sorvegliare l’incontro tra prigionieri e giornalisti non fa una piega. Scruta il sottoscritto, ammesso nel carcere assieme ad un collega russo e uno indiano, e da il via all’intervista. Il tenente Batinsky non si fa pregare. «E successo l’8 aprile. Io e i miei uomini eravamo a Mariupol già da un mese. Quel giorno eravamo di turno nelle posizioni intorno all’acciaieria Illija. Lì non ti potevi fidare di nessuno. Negli scantinati era pieno di civili, ma anche di collaboratori russi. Quel giorno ispeziono un sottoscala e vedo una donna. È giovane, sola e bella. Mi vede. Fa due passi indietro. I suoi occhi impauriti mi eccitano. La spingo in un angolo, la faccio inginocchiare, mi apro i calzoni e le sussurro quell’ordine osceno. Fallo o ti ammazzo. All’improvviso un urlo, un rumore di passi nel buio. Non so chi sia, sento solo la sua voce. Smettila, smettila bastardo. Poi è su di me. Sposto la donna, afferro la pistola, sparo tre colpi quasi a bruciapelo. Lui barcolla, mi fissa sconvolto, poi va giù. Non lo guardo neanche. La donna urla Assassino, assassino!. La spingo via, salgo le scale, raggruppo gli uomini, torno all’acciaieria e per due mesi mi illudo che la verità sia rimasta in quel sottoscala. Ma non è così. Me ne rendo conto appena fuori dall’Azovstal. Durante gli interrogatori non tento neanche di nasconderlo. Penso di essermi liberato di un peso. È solo un’illusione. Ora la mia pena peggiore non è il carcere, ma i fantasmi delle mie vittime con cui divido la cella».
Poi Sergei non parla più. China la testa, piega le mani dietro la schiena curva – come impone la regola della prigione – e segue il secondino pronto a trascinarlo in cella. Ora è il turno di Aliev Rinat. Ha 26 anni ed è un reduce dell’Azov, il reggimento ultra-nazionalista simbolo della resistenza di Mariupol. Su quattro dita porta tatuate le lettere della parola HATE, «odio». «Ma è l’odio per mio padre. Mi ha abbandonato ad un anno – si schernisce -, non per il nemico». Lo preghiamo di alzare le maniche. A destra spuntano una runa scandinava e una scritta. «La runa simboleggia la vita eterna e qui c’è scritto Chi vive da guerriero vive in eterno. Intuisce. Si giustifica. Non è come pensate. I simboli li consigliava quello dei tatuaggi». Difficile credergli. Anche se a differenza di tanti militanti dell’Azov non è stato scambiato con i prigionieri russi. «Non so perché mi hanno abbandonato. Forse perché ero solo un carrista, non ero un volontario e non sono importante».
Anche Aliev, come il tenente Batinsky, non uscirà tanto presto. «Dieci anni se tutto va bene, ha detto il procuratore. Ho solo obbedito agli ordini – si giustifica Aliev -. C’erano degli edifici in fiamme, dovevamo sorvegliarli per evitare sorprese. Quando tra il fumo ho visto delle ombre ho sparato siamo andati a controllare ed erano solo due civili. E siccome nessuno mi ha scambiato ora pago per quell’errore. Ma credetemi, il tatuaggio non c’entra. Non odiavo nessuno».
Il suo posto sullo sgabello lo prende Mikhail Shvietz detto Tanos. Ha solo 22 anni. È pure lui un reduce dell’Azov. Ma a differenza di Aliev e del tenente Batinsky non ti offre né pentimenti, né giustificazioni. «Il 15 marzo ero appostato all’ottavo piano di un edificio quando ho visto un civile con la fascia bianca, quella dei collaborazionisti russi, risalire il Corso della Vittoria. Quando è arrivato a 400 metri da me ho semplicemente mirato e sparato. Perché l’ho fatto? Perché così va in guerra. Perché in quell’istante odiavo lui e chiunque stava con il mio nemico».