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 2023  febbraio 27 Lunedì calendario

Gli 80 anni di Dante Ferretti

Andiamo a caccia di ricordi, aneddoti e immagini con Dante Ferretti. Dove ci vediamo? «Sulla luna», risponde. E pensiamo a E.T. , in fondo Spielberg è uno dei pochi maestri che mancano alla sua tavolozza. È scanzonato e ironico. Ha l’innocenza di un bambino. E ha una saggezza contadina, quest’uomo tenace e umile che ha portato la provincia italiana a Hollywood. Quando le parole si gonfiano, il grande scenografo sminuisce, devia, taglia corto.


Arrivò a Roma a 17 anni, inseguendo il suo sogno: il cinema. I suoi angeli custodi si chiamano Pasolini, Fellini, Scorsese. Per il film Kundun conobbe il Dalai Lama che su una piantina disegnò la sua casa natale: «Gli chiesi di firmarla, ha visto mai che me la possa rivendere, gli dissi scherzando». Ha una parete di premi dove spiccano i sei Oscar, divisi tra lui e sua moglie Francesca Lo Schiavo che fa la set decorator: «I premi sono esattamente come i miei anni, 80». Li ha compiuti domenica.


Com’è entrato il cinema nella sua vita?
«Da ragazzino rubavo i soldi dalle tasche di papà e andavo a vedere un film dopo l’altro. Siccome a scuola mi rimandavano ogni anno a settembre, mio padre vedeva il mio futuro accanto a lui nella sua falegnameria di Macerata (sono cresciuto in una povertà dignitosa); però gli strappai la promessa che se mi avessero promosso alla maturità mi avrebbe mandato a Roma a studiare alle Belle Arti». Facevo pratica dallo scenografo di Blasetti, che mi chiese di fargli da aiuto. Disegnavo su un tavolino contro il muro. Le prigioniere dell’isola del diavolo è stato il mio primo film. Avevo 19 anni».


Dopo poco incontrò Pier Paolo Pasolini.
«Ero aiuto scenografo di Luigi Scaccianoce nel Vangelo secondo Matteo, solo che Luigi seguiva più progetti insieme e alla fine Pasolini (con cui feci tutti i suoi film, dandoci del lei), manco ci parlava. Così per Edipo re diede a me tutto il lavoro, anche se come titolare figurava Luigi; al momento di ritirare il Nastro d’Argento nemmeno mi nominò. Una mattina tornai di corsa a casa perché volevo andare al mare a Fregene e mi ero dimenticato il costume. Squillò il telefono, era Renzo Rossellini, produceva Medea: Fai la valigia, fra tre ore ti passo a prendere e andiamo in Cappadocia. A fare che? Pasolini ti vuole per Medea. E dov’è la Cappadocia? Preparati e basta. Ricordo Maria Callas che la sera cantava per il suo cagnolino. Arrivato sul set, Pasolini mi disse di preparare il carretto che avrebbe dovuto guidare la Callas, domani ti darò il copione, aggiunse. Inventai qualcosa con stoffa, pelle e cuoio. Pasolini mi ha insegnato la spiritualità. Si era creata una comunione poetica tra noi, ho capito cosa significa avere una visione e cosa vuol dire trasformare la vita in arte. La sua morte è stata caravaggesca, la negazione dell’uomo che avevo conosciuto».


E poi?
«Scaccianoce mi richiamò per Satyricon di Fellini, il quale gli chiese una tonalità di beige per un interno. Non gliene andava bene nessuno, finché io per terra vidi un pezzo di cartone e a Federico dissi: maestro, è questo il colore che cerca? Lui annuì e chiese, ma tu chi sei? Sono qui sul set da tre mesi. Mi chiamava Dantino, mi diceva guarda che tu devi lavorare per me. La ringrazio ma perché mi vuole rovinare, risposi, mi dia dieci anni di esperienza. Una notte, a Cinecittà, sotto un lampione, io uscivo dal set di Todo modo e lui da Casanova. Mi disse, dieci anni sono passati. Con Fellini ho fatto i suoi ultimi sei film».


Sono vere le leggende dei 67 set per Le avventure del barone di Münchhausen di Terry Gilliam?
«Il budget si gonfiò fino a raddoppiare, 46 milioni di dollari, e quando finirono i soldi feci costruire la mongolfiera con la biancheria intima issata da una gru. Quel matto di Terry disse, ci siamo incontrati e abbiamo spiccato il volo. Uno dei grandi flop della storia del cinema è un capolavoro di fantasia e visionarietà: fu la mia prima nomination agli Oscar».


Una fantasia del tutto diversa da quella di Fellini.
«Federico mi chiedeva: Dantino, cosa hai sognato stanotte? Io non lo ricordavo, il giorno dopo stessa domanda e stessa risposta. Il terzo giorno per farlo contento gli dissi, sì, me ricordo il sogno di stanotte. Quando da ragazzino accompagnavo mamma dalla sarta, io accucciato per terra guardavo sotto la gonna delle donne. Rimise il mio sogno nella Città delle donne, è la scena in cui Mastroianni viene rapito in cielo da una mongolfiera che sono le gambe di una procace, enorme bambola gonfiabile. Oppure gli parlai della macellaia di Macerata che quando si chinava per tagliare la carne mostrava il suo seno smisurato. Sul set a Cinecittà ci venne a trovare Martin Scorsese, si era appena sposato con Isabella Rossellini. Giravamo la scena del bordello. Fellini disse a Martin, beh, non è il posto migliore per la vostra luna di miele».


E Scorsese la chiamò...
«Una decina d’anni dopo, per L’età dell’innocenza . Ho lavorato nove volte con lui. La major di Hollywood MGM mi fece volare sul suo aereo privato: enorme, a bordo c’erano un ristorante e il figlio di Sinatra che suonava. Avevamo letti al posto delle poltroncine, con delle tende per la privacy. Accanto a me intravedevo la sagoma nera di una modella. Quando aprì la tenda feci un salto e mi dissi: ho dormito accanto a Naomi Campbell».


Ma i pizzini che scambiava con sua moglie Francesca Lo Schiavo prima di fidanzarvi?
«Avevamo scoperto di essere vicini di casa, erano biglietti che ci lasciavamo sul cruscotto dell’auto, comunicazioni di servizio: cosa fai, dove ci vediamo. Non volevo che lavorassimo insieme, ma sono uno che cede subito. Ed è andata benissimo. Ora sto lavorando a un film musical americano intitolato Verona, su Romeo e Giulietta, diretto da Timothy Bogart. Siccome non ho memoria e non ricordo nulla, per non sbagliarmi lo chiamo Humphrey Bogart».


È vero che per The Aviator pensò a Macerata bombardata nella Seconda guerra?
«Sì, nei bozzetti di quel film ho disegnato cieli annuvolati da enormi ali metalliche, scie minacciose, rombi violenti che riempiono lo spazio fino quasi a farlo esplodere. Era il 3 aprile 1944. La nostra casa fu demolita, mio padre perse una gamba, io avevo un anno e due mesi, fui estratto dalle macerie da mia madre dopo quasi due giorni. Ci ho ripensato vedendo i bambini turchi e siriani del terremoto».


Chi è Dante Ferretti?
«Un megalomane. Realizzo architetture mastodontiche. Sono il contrario dello scultore, che scava e toglie: io, aggiungo. Ma nel nostro lavoro dobbiamo fare degli errori, se è tutto troppo perfetto, sembra finto».