Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 27 Lunedì calendario

Su "Profeti, oligarchi e spie" di Franco Bernabè e Massimo Gaggi (Feltrinelli)

Quando un libro è costato due anni di faticose ricerche lo si capisce immediatamente perché non asseconda tesi diffuse e consolidate, ma anzi ha il coraggio di metterle in discussione, smontandole con un esercizio certosino di documentazioni e argomentazioni. Il saggio Profeti, oligarchi e spie. Democrazia e società nell’era del capitalismo digitale di Franco Bernabè e Massimo Gaggi (Feltrinelli) parte da qui: quante volte in un abusato esercizio delle metafore ci siamo sentiti dire che la tecnologia dell’informazione e la rete internet sono paragonabili all’elettricità e al motore a vapore, le due grandi rivoluzioni sociali e tecnologiche alla base dell’economia moderna? La società dell’informazione — di cui l’intelligenza artificiale con ChatGPT è solo l’ultima espressione — è diventata così per tutti sinonimo di progresso.

Bernabè e Gaggi, in un libro ben informato e dunque preoccupante, ci portano a mettere in discussione questo rassicurante dogma contemporaneo: il capitalismo digitale ha solo le fattezze esterne dei fenomeni del passato come la corsa all’elettricità, con i suoi geni innovatori come Alessandro Volta, Thomas Edison, Nikola Tesla, e i grandi finanzieri e industriali quali JP Morgan e George Westinghouse.

Oggi è facile sovrapporre a questi nomi gli attuali eroi come Bill Gates, Mark Zuckerberg e i padri di internet come Tim Berners-Lee. Ma c’è un caveat allarmante: la digitalizzazione sfalda silenziosamente la democrazia e contribuisce alla scomparsa del ceto medio. Se dunque può essere considerata una rivoluzione tecnologica, viene a mancare quella ricaduta sociale che il vapore e l’elettricità hanno avuto, alimentando nuove industrie e nuove ricerche scientifiche, laddove il digitale tende a cannibalizzare e a risucchiare tutto come un buco nero che non tollera resistenze alla propria forza gravitazionale, nemmeno dalla luce.

La forza di Profeti, oligarchi e spie risiede in una formula che a tavolino può sembrare facile da usare ma che risulta spesso un esercizio difficile da mettere all’opera: uno speciale amalgama di due autori diversissimi per esperienze e percorsi professionali. Bernabè ha guidato per decenni da protagonista proprio le realtà dominanti delle due grandi industrie messe a confronto, passando dalla poltrona di amministratore delegato dell’Eni a quella di Telecom Italia. Energia e telecomunicazioni. Gaggi, ben noto ai lettori del « Corriere» dove è stato anche vicedirettore, esplora e decodifica da vent’anni la società americana in qualità di editorialista da New York.

Ne risulta una capacità inusuale di collegare con credibilità e coerenza temi e livelli complessi, dall’esercizio della democrazia al funzionamento dell’industria e dell’economia passando dal Dopoguerra a oggi attraverso le grandi crisi: l’11 settembre e l’attacco alle Torri gemelle di Al Qaeda che portò al disastroso Patriot Act, la legge che permise la prima sorveglianza di massa; e poi la folla di scalmanati guidati da uno sciamano che il 6 gennaio 2021 diedero l’assalto a Capitol Hill, il Congresso americano. «Mai prima di allora nella storia della democrazia americana — si legge nella descrizione del caso con cui i due autori decidono di aprire il libro — si era verificato un fatto così potenzialmente eversivo».

Essendo ben documentato Profeti, oligarchi e spie non si nasconde dietro un’analisi dettagliata del fenomeno senza dare dei volti alle responsabilità: il primo e più citato è senz’altro quel Bill Clinton che ha rappresentato — nonostante il suicidio politico legato a Monica Lewinsky — un modello per tutta una serie di nuovi leader progressisti che si sono sentiti confortati nell’abbracciare senza remore la religione della rete. A partire da Tony Blair, ma anche Barack Obama.

Ecco allora un filo rosso dipanato con pazienza dai due autori che dalle origini della rete a pacchetto nata negli anni Settanta in Francia con Louis Pouzin, l’uomo che avrebbe ispirato Vint Cerf e Robert Kahn, i padri del Protocollo Internet, ci porta al deepfake, ai droni guidati dall’intelligenza artificiale e alla cyberwar toccando anche l’Ucraina, la Russia, la crisi dei partiti, Twitter, Instagram, TikTok e la rinascita del populismo che da Donald Trump arriva a Beppe Grillo.

Per inciso la ricca aneddotica sulla nascita della società dell’informazione dagli anni Cinquanta in poi, con incursioni felici anche nella storia dell’elettricità e della comunicazione in Italia (come quando ci viene ricordato che la Sip, l’antenata di Telecom Italia, era la Società idroelettrica piemontese), rende la lettura piacevole e spinge a prendere utili appunti mentali.

Ma tornando ai colpevoli, o perlomeno ai responsabili, a causare la crescita e il consolidamento di una oligarchia tossica per lo stesso funzionamento della democrazia fu per Bernabè e Gaggi proprio quella stagione di deregulation che, sebbene già avviata da Ronald Reagan, alla fine degli anni Novanta permise alla nascente industria di internet di mettere delle radici così profonde da creare nuovi imperi finanziari capaci di fare ombra a quelli del passato. La volontà americana di non uccidere il bambino dell’innovazione in culla si è protratta dunque fino a un punto vicino a quello di non ritorno. «Dobbiamo parlarne adesso perché potremmo essere l’ultima generazione in grado di ricordare com’era la vita prima», raccontò al «Guardian» Justin Rosenstein, considerato uno dei padri del bottone like.

Un altro «pentito», Evan Williams, uno dei padri di Twitter, confessò così nel 2017 al «New York Times» la fine del mito fondativo: «Credevo che dare più libertà alla gente di scambiare idee e informazioni in rete bastasse di per sé a creare un mondo migliore. Sbagliavo, internet è a pezzi». Ma non si tratta solo di ingenuità: il libro ricorda come siano stati in molti a denunciare che Facebook, forse il più tossico ingrediente della Silicon Valley, si fosse reso conto in tempi non sospetti che non solo i social creavano una dipendenza simile agli oppiacei, ma alimentavano un diffuso senso di ansia e insicurezza negli adolescenti.

L’era della digitalizzazione è a suo modo una rivoluzione, ma non sociale. A questa deformazione ha contribuito purtroppo la crisi dell’editoria e della stampa, che alimenta un pensiero critico e non la creazione di stanze dell’eco che ci assecondino nei nostri istinti peggiori. Il colpevole? Sempre Clinton: fu la Sezione 230 del suo Telecommunications Act a creare le condizioni per l’eccezionalismo di internet, con la sospensione delle responsabilità editoriali da parte delle piattaforme su tutto ciò che viene pubblicato. In conclusione, ricordano Bernabè e Gaggi, non siamo finiti in 1984 di George Orwell, ma piuttosto ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley: nessuno vieta libri e informazioni. È sufficiente il loro eccesso di contraddizioni ad affogare la verità.