la Repubblica, 27 febbraio 2023
La rotta turca dei migranti
Ora che la spiaggia di Cutro sembra Libia o Tunisia, con decine di corpi coperti con teli bianchi, l’Italia e (forse) l’Europa scoprono improvvisamente la rotta turca. Quella che, vuoi per la presa dell’Afghanistan da parte dei talebani ad agosto 2021 vuoi per gli ulteriori sei miliardi dati dalla Ue al presidente turco Erdogan per fermare la fuga dei profughi verso la Grecia, ha dirottato decine di migliaia di migranti verso le coste ioniche dell’Italia, dalla Calabria al Salento. Rotta lunga e pericolosa (almeno quattro giorni di viaggio), molto costosa, e in un tratto di mare per nulla pattugliato da dispositivi di soccorso e dove la flotta umanitaria non è presente. Percorsa soprattutto da afghani, iracheni, pachistani, siriani, moltissimi nuclei familiari in fuga da teatri di guerra e dove i diritti umani sono negati.
E purtroppo, quel che resta del vecchio peschereccio spezzatosi davanti alle coste calabresi, lascia temere che i cosiddetti viaggi in “prima classe”, quelli in grandi barche a vela affidate dai turchi a scafisti russi e ucraini, costo del biglietto 10.000 dollari per gli adulti, 4.000 per i bambini, possano aver lasciato il passo o essere stati affiancati da traversate meno costose e meno sicure su barconi fatiscenti capaci di ospitare centinaia di persone.
È la legge della domanda e dell’offerta, l’ennesima tragica dimostrazione che i flussi migratori non si fermano né con i muri, né con le politiche securitarie né con la battaglia contro la flotta umanitaria. Semplicemente trovano un’altra strada, si adattano alla geopolitica. E così, alzato il muro tra Grecia e Turchia, respinti la gran parte dei viaggi verso le isole greche, da Bodrum, da Smirne, da Izmir si parte direttamente verso l’Italia. Analisi confermata dai dati di Frontex che, nel 2022, ha segnalato 29.000 migranti sulla rotta dell’Egeo, 18.000 dei quali sbarcati in Italia. Solo uno su tre è approdato in Grecia per poi provare a proseguire via terra attraverso i Balcani. E adesso, alla grande fuga dall’Afghanistan potrebbe aggiungersi quella dai territori della Turchia e della Siria devastati dal terremoto.
Ha ragione il presidente della Regione Calabria Saverio Occhiuto, davanti ad una tragedia dell’immigrazione di tali proporzioni, a gridare la sua rabbia per l’indifferenza verso un flusso che sembra invisibile a dispetto di numeri che invece sono più che significativi. Nel 2022 solo inCalabria sono sbarcate 18.000 persone, il 15 per cento degli arrivi complessivi in Italia, il doppio rispetto ai 9.600 del 2021 e nove volte di più rispetto ai 2.500 del 2020.
Indifferenza ma anche sottovalutazione dal parte del governo italiano che, con l’ambizioso quanto improbabile obiettivo di bloccare le partenze verso l’Italia, non ha messo in campo nessun altro strumento che un decreto vessatorio contro la flotta umanitaria che persino le Nazioni unite hanno chiesto di ritirare. Ieri, volato a Crotone per presiedere un vertice in prefettura e rendere omaggio alle vittime, il ministro dell’Interno Piantedosi non ha saputo prospettare altre so luzioni che: «In queste condizioni non devono partire», auspicando «il passaggio dalle parole ai fatti» da parte dell’Europa. Perché un centinaio di vittime davanti alle coste italiane sono oggi una responsabilità per il governo Meloni che finora ha vantato come un gran risultato quello «di aver portato la questione migratoria al centro dell’agenda politica europea». Al momento solo parole, i fatti sono decine di cadaveri sotto un telo bianco su una spiaggia italiana. E all’orizzonte niente altro che accordi con Libia e Tunisia per respingimenti collettivi mascherati da soccorsi. Di cui anche ieri, nel giorno del lutto, Piantedosi ha vantato i risultati: «Tra Tunisia e Libia, da quando è in carica questo governo, sono state intercettate e riportate indietro 24 mila persone e ne sono arrivate 14 mila. C’è questa vocazione alle partenze sostenuta da un coro di consensi, come se questo fenomeno si risolva incoraggiando tutti a venire anche in condizioni drammatiche».
Dimentica Piantedosi quello che invece Flavio Di Giacomo, portavoce Oim sottolinea: «Chi arriva da questa rotta fugge da contesti drammatici di guerra e privazione dei diritti umani. Ci auguriamo che le grandi attestazioni di solidarietà di un anno e mezzo fa nei confronti del popolo afghano non vengano meno adesso. Si parla troppo di difesa dei confini, ma queste non sono persone da cui difendersi bensì persone disperate da proteggere. E l’approccio non può che essere umanitario. Fino a quando l’approccio sarà securitario, tragedie come questa non potranno che aumentare. Occorre dare priorità ai soccorsi in mare, anche al largo delle coste della Calabria, di cui devono farsi carico tutti i paesi interessati e non solo l’Italia e si devono aprire canali di ingresso regolari che non esistono».