Domenicale, 26 febbraio 2023
Biografia di Giorgio De Chirico
Al suo debutto parigino al Salon d’Automne (1913) De Chirico conosce Picasso, che lo presenta ad Apollinaire come il «pittore dei treni». Dalla sua prima lettera all’autore di Alcools veniamo a sapere che «Sciricò», ormai francese di adozione, l’ha omaggiato di alcune sue opere, forse intuendo quanto la casa del poeta fosse ben frequentata. In cambio gli chiede solo una poesia a lui dedicata. Apollinaire lo affida a Paul Guillaume che gli assicura un lancio internazionale e GdC lo ripaga con il leggendario ritratto in forma di bersaglio.
L’attività di GdC scrittore parte e prosegue in parallelo con quella dell’artista, nella scansione delle diverse stagioni creative, a partire dai Manoscritti parigini (1911-1914), le basi della Metafisica, tra riflessioni e poesie, corredati da una serie di schizzi, proiezione dell’immaginario metafisico. Il talento multiforme, la verve dialettica, il gusto dell’ironia, il successo crescente di critica e mercato gli procurano l’attenzione e la frequentazione dei protagonisti eminenti della società culturale, come Breton, Eluard, Cocteau, Aragon, Max Ernst, eccetera. I più avvertiti tra loro gli acquistano delle opere a prezzo di favore. Lo scoppio della guerra costringe GdC, assieme al fratello Alberto Savinio, a tornare in Italia, a Ferrara, per il servizio militare. Il racconto di quell’esperienza è affidato soprattutto alle pagine di Memorie della mia vita (1945 e sgg.), forse l’autobiografia novecentesca di maggiore intrattenimento. I fratelli, che incontrano anche Carrà, marcano spesso visita, al punto da farsi ricoverare per problemi psichici pur di sottrarsi alla noia della naia. Qui il Nostro dipinge solo capolavori consentendo a Ferrara di fregiarsi in seguito del titolo di «città della Metafisica».
Il Dopoguerra segna per GdC una svolta, con l’adesione a «Valori plastici»e un ritorno al figurativo classico che si ispira ai maestri del Rinascimento e del Siglo de Oro. Per questo deve affinare ancor più il “mestiere” e la “tecnica”, recandosi nei musei per eseguire copie da Lotto, Raffaello e Michelangelo. Gli amici francesi, e non solo, la prendono male e gli voltano le spalle e gridano al “ripudio” della Metafisica. La risposta sdegnata di «Sciricò» sfocia in una domanda: qualcuno ha mai parlato di ripudio quando Picasso ha smesso di dipingere Arlecchini e saltimbanchi?
Intanto il Surrealismo sta per implodere, e le vie d’uscita per gli ex amici sono due: il suicidio (tema dibattuto sull’organo «La Révolution Surréaliste»nel gennaio 1925) o l’iscrizione al partito comunista: Breton, Eluard e Aragon scelgono la seconda, René Crevel la prima. I pittori, meno vulnerabili dei poeti, allievi elettivi di «Sciricò», come Magritte, il più fedele, e Max Ernst, il più nobile, proseguono per la strada da lui indicata, e altri ne giungeranno, come il funereo Delvaux e l’arrapato Bellmer. Il Surrealismo conosce comunque un clamoroso colpo di coda letterario, grazie a GdC, con la pubblicazione del romanzo Hebdomeros. Le peintre et son génie chez l’écrivain (1929), una proiezione narrativa della sua opera pittorica. Tutti gli ex nemici si impadroniscono, per così dire, di Hebdomeros come del capolavoro tanto atteso e i cantori più eccitati sono Breton, Aragon e Bataille. La prima edizione italiana di Ebdòmero (1942) è di Bompiani, su suggerimento di Savinio, che pubblica nello stesso anno Narrate uomini la vostra storia, avviando con Valentino un rapporto d’autore, amico e collaboratore. Il secondo romanzo autobiografico, Monsieur Dusdron, esce subito dopo Ebdòmero. Il nome del protagonista è l’anagramma di Nord Sud, a sottolineare l’integrazione tra la formazione classica dell’adolescenza e quella germanica, artistica e filosofica, sotto l’egida dei tetrarchi Böcklin, Klinger, Nietzsche e Schopenhauer. A partire dal 1944, con gli Scritti critici e polemici, la Commedia dell’arte moderna e le effervescenti interviste, GdC va alla guerra contro l’aborrita École de Paris e i “filogalli” e “francolatri” critici, soprintendenti, direttori di musei e occasionali ministri inauguratori. In cima alla lista è l’insigne Roberto Longhi, che per la verità aveva scagliato la prima pietra, in occasione di una delle prime mostre metafisiche romane nel 1919, con una recensione in una elegante quanto feroce chiave parodistica fin dal titolo: Al dio ortopedico. Circa quarant’anni dopo, Longhi aveva curato per la Biennale veneziana una mostra dedicata alla Metafisica con opere di De Chirico, Carrà e Morandi. GdC scrisse e denunciò in tutte le sedi di non essere stato consultato per la scelta delle opere, tra le quali c’era un falso sfuggito ai curatori. Capitava quindi che, quando i due si incrociassero per le strade di Roma o di Firenze, il Longhi compisse strane acrobazie per svicolare, magari temendo che l’avversario potesse passare a vie di fatto.
Rapsodico cronista, forse involontario, del clima artistico e culturale dell’Italia del secondo Dopoguerra, GdC ci squaderna una sua controstoria dell’arte europea, tra fine Ottocento e primo Novecento, con il piglio di un giustiziere western munito di lista di obiettivi sensibili. Primo, il celebrato e da tutti copiato Cézanne, all’origine di tutto, compreso il Cubismo, la cui figurazione approssimativa deriva dalla scarsezza tecnica di cui è consapevole; bigotto, subornato dai gesuiti, non si permette di usare modelle nude nel suo studio così che le sue Bagnanti appaiono come legnosi manichini. Gauguin, gravato da un’ossessiva sensualità tipica dei bretoni (ma anche i ferraresi non erano da meno), quando vuole dipingere un cane sembra un tapiro, ma almeno è un bravo scrittore. Van Gogh, con i «suoi crostoni giallo canarino», è un «disgraziato schizofrenico». Matisse con la «sua oscena mostra di scarabocchi» ha profanato Palazzo Barberini. Toulouse-Lautrec, più che pittore, è un cartellonista. La lista di proscrizione è ben più lunga, ma è preferibile concludere con un esempio in positivo di un artista stimato da GdC e dalla singolare personalità, André Derain, agli inizi vicino ai Fauves, e poi orientato a Corot. Al suo successo, secondo GdC, più che le opere contribuisce il suo carattere «scontroso per eccellenza, non parla mai e se qualcuno gli rivolge la parola risponde con un grugnito». Viene voglia di conoscerlo, di guardarlo in faccia. Abbiamo il ritratto ora al MoMA, che gli ha fatto Balthus: un omone ritto, in lunga vestaglia da camera, espressione da orco, in secondo piano una giovanissima modella discinta, molto balthusiana, in attesa di rimettersi in posa.