Domenicale, 26 febbraio 2023
Biografia di Paolo Vita-Finzi
Ci sono percorsi di vita così sinuosi da finire nella dispersione. E i dispersi possono anche essere i più interessanti degli esseri umani, ma chi ricorda i loro nomi?
Paolo Vita-Finzi è un caso da manuale. Nato a Torino nel 1899, fa in tempo a combattere da volontario sul Carso. Smobilitato, torna a Torino, e qui entra in rapporti con il quasi coetaneo Piero Gobetti (collabora con un paio di traduzioni ai primi fascicoli della «Rivoluzione liberale») e sfiora Gramsci, senza però mai cadere sotto la fascinazione né del primo né tantomeno del secondo: «Se – scrive nella bellissima autobiografia Giorni lontani - ammiravo l’intelligenza e la vertiginosa attività di Gobetti, le sue idee mi avevano sempre lasciato perplesso: per quanto sia elastica la parola “liberale” non riuscivo a persuadermi che la rivoluzione russa fosse un atto di liberalismo». Laureatosi in Giurisprudenza, nel 1924 vince il concorso diplomatico e comincia la sua carriera all’estero: Düsseldorf, Sfax, poi più lungamente Tbilisi. Nel 1938 le leggi razziali lo costringono all’esilio. Si stabilisce a Buenos Aires, dove scrive, traduce, fonda una rivista culturale intitolata «Domani». Nel Dopoguerra rientra nei ranghi del ministero. È ambasciatore a Oslo, quindi a Budapest. Ma non fa la carriera che si era auspicato e che probabilmente meritava di fare. «Questi solerti colleghi – scrive sempre in Giorni lontani - avevano intuito che in Italia l’amministrazione s’andava sempre più intrecciando con la politica, e promettendosi reciproco appoggio avevano creato una specie d’ufficio d’aggancio con (…) la Democrazia cristiana». A questo «ufficio d’aggancio» il liberale Vita-Finzi era rimasto sempre estraneo.
Questo è il profilo di una carriera diplomatica di alto livello, ma non eccezionale. Ma accanto alla professione, Vita-Finzi svolge un’attività di letterato e pubblicista di qualità e respiro davvero straordinari. E, soprattutto, di straordinaria varietà, come se fosse sempre in dubbio circa la vocazione a cui dedicare la sua intelligenza. Nel 1927, non ancora trentenne, pubblica una Antologia apocrifa, cioè una raccolta di parodie di autori contemporanei in prosa e in verso. Il libro è un capolavoro dell’intelligenza e del talento mimetico, memorabile soprattutto in quei passaggi che castigano i vizi italiani del bellettrismo e della retorica – non a caso i pezzi più spiritosi sono quelli attribuiti a un languoroso pseudo-Ungaretti: «Rilievito / docilmente / a questa brezza / fievole» (Convalescenza) e a uno pseudo-D’Annunzio paradisiaco: «Vieni, sorella, il tacito giardino…» (in esergo, un verso dell’ovviamente immaginario duecentista Maritozzo Maritozzi, «che ebbero caro Bindo Bonichi e Folcacchiero dei Folcacchieri»: «E colei che addormento è mia sorella»).
Aveva dunque la stoffa del critico letterario (l’Antologia apocrifa «conta – sono parole di Gianfranco Contini – fra i prodotti eccellenti della critica contemporanea»), ma il lavoro di diplomatico lo portò a concentrarsi sulla cronaca e sulla storia dei Paesi nei quali prestava servizio. Aveva infatti, anche, la stoffa del saggista-reporter al modo anglosassone, e ogni nuovo pezzo di mondo con il quale entrava in contatto gli dava un’occasione per scrivere: corrispondenze dalla Germania di Weimar, reportage dall’Australia, un pamphlet su Perón. In questo peregrinare, fu il soggiorno in Unione Sovietica a dargli più di ogni altro materia di riflessione e scrittura. Quattro anni dopo il rientro dall’Urss, pubblica il saggio Grandezza e servitù bolsceviche (Roma 1934). Muovendosi nella regione del Caucaso, era stato testimone diretto, uno dei pochi e dei primi, della crudeltà della dekulakizzazione. Anche alla luce di questa esperienza, alla fine del libro prediceva il probabile successo dell’«esperimento sovietico».
Laggiù, osservava, si stava affacciando alla vita politica una generazione che non aveva mai conosciuto un regime diverso da quello sovietico, una generazione allevata nel culto dello Stato e nell’odio per quell’entità cangiante che è il nemico di classe. Era davvero il sogno dell’uomo nuovo fatto realtà: «La rivoluzione sovietica è il più grande tentativo di deviazione degli istinti, di razionalizzazione della storia, il più grande atto di violenza che l’umanità sinora ricordi».
Negli anni Cinquanta Vita-Finzi collabora al «Mondo», e scrive una serie di brevi saggi che nel 1961 confluiscono nel volume Le delusioni della libertà, che torna adesso in libreria, primo libro della serie «Liberalismi eccentrici» varata dall’Istituto Bruno Leoni. Il proposito di Vita-Finzi era quello di mostrare come negli anni a cavallo tra Otto e Novecento la causa della democrazia liberale fosse stata tradita da quegli intellettuali italiani e francesi che si erano lasciati sedurre ora (a sinistra) dal mito del popolo e della nazione, ora (a destra) da quello dell’élite virtuosa e dell’uomo forte: i diciotto capitoli del libro affrontano ciascuno, con ampiezza di documentazione, il pensiero di uno di questi intellettuali. S’intende che la sintesi ha un costo: figure e problemi su cui si sono scritte biblioteche intere si trovano compendiati in medaglioni di poche pagine; e il pensiero di uomini complessi come Croce, Pareto o Mosca viene considerato solo nella prospettiva della loro affiliazione al club dei “precursori del totalitarismo”. C’è insomma una certa unilateralità: ma è quella che si trova sempre là dove il saggista non si limita alla dossografia. Al di là però delle critiche che si possono muovere a questa o a quella pagina, a questo o a quel giudizio troppo perentorio, il libro regge e parla ancora al nostro presente. Sul Croce antidemocratico e antiparlamentare, per fare solo uno degli esempi possibili, ciò che scrive Vita-Finzi precorre ciò che scriverà più tardi Bobbio nel Profilo ideologico del Novecento italiano. Ma più in generale regge l’idea che riflettere sul ruolo degli intellettuali nella formazione e nella direzione dell’opinione pubblica sia un ottimo modo per spiegare certe pieghe del carattere nazionale alla prova della Storia. Vanno lette in questa prospettiva, la prospettiva della formazione, se non del consenso, di una Stimmung favorevole alla virata autoritaria del primo Dopoguerra, soprattutto i capitoli sul Lemmonio Boreo di Soffici, su Pareto, su Rensi, e le tante osservazioni sull’ambiguità della «Voce». Chiedersi come certe opinioni, certi stati d’animo, transitando dalle scrivanie degli intellettuali alle coscienze delle persone comuni, producano certe azioni: ecco un modo intelligente di fare storia delle idee, ed ecco un libro in cui lo si fa in maniera esemplare.