il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2023
I cantanti maledetti (francesi) in un libro
Serge l’aveva scritta per Brigitte. Ma il marito-playboy Gunther Sachs scoprì la sbandata della sua donna per questo poeta gaglioffo, e bloccò la pubblicazione di questa “canzone d’amore più bella del mondo”. Gainsbourg e la Bardot avevano anche cercato casa insieme, lì a Parigi, ma la fiamma che li ardeva si consumò in poche settimane. Così, un paio di stagioni più tardi, nel ’69, a sospirare nel duetto impudico di Je t’aime, moi non plus fu Jane Birkin, ex modella di David Bailey. Cosa resta degli amori degli sbandati, i ribelli, i maudits e gli esistenzialisti francesi? Un mucchio di perle, mischiate al ciarpame pop e rock transalpino, che hanno segnato Gli anni d’oro della canzone francese, 1940-1970 (Gremese), scritto con passione e perizia dal giornalista Vito Vita e dal compositore-ricercatore Giangilberto Monti. Un libro sensato quanto temerario, nella sua missione di inquadrare il trentennio decisivo del patrimonio musicale d’Oltralpe, tra aneddoti preziosi e carriere discografiche ricostruite nel dettaglio. Anche al lettore meno avvertito salterà all’occhio la connessione inestricabile, almeno per certi filoni, tra la storia della musica d’autore francese e quella italiana: con la trimurti Brassens-Ferré-Brel (quest’ulti – mo belga di nascita) a ispirare De André, Paoli, Gaber, gli chansonniers che fornivano linfa ai nostri cantautori. C’era, anche, in certi casi, una connessione antropologica più stretta: Brassens era di origini lucane, Yves Montand toscano, Nino Ferrer ligure, mentre Claude Francois (la sua Co mme d’habitude era l’originale da cui Paul Anka trasse laMy Wayimmortalata da Sinatra) di origini calabresi, e così anche Dalida, figura mitologica. Dalida, di cui nel volume si accenna all’e terno mistero della stanza 219 del Royal di Sanremo: era presente, quando Tenco si sparò quel colpo balordo? Non riuscì a fermarlo, oppure entrò subito dopo e vide, per prima, cosa aveva fatto il suo compagno? Non lo sapremo mai, ammettono Monti e Vita: che spesso, in altre delle 17 monografie offrono godibili pennellate narrative della ‘Paris canaill e’, quella sordida dei mercatini infidi e dei locali dove il fumo diventava nebbia. Vi si muovevano gli artisti di una scena che aveva fatto cantare un popolo. La mitologia nazionale consegnava agli osservatori i destini di uomini e donne fragili, eppure immensamente potenti: ovviamente la Piaf, il passerotto che la malasorte sembrava sempre pronta a stritolare in un abbraccio e che invece macinava cuori altrui, mentre sul palco incarnava la fierezza di una Francia resistente ai nazisti. O Charles Trenet, cantore di una vita lieve, mentre la sua si muoveva nelle strettoie di u n’omosessualità da nascondere perché non ne uscisse rovinato. Anche dall ’America, Parigi pareva un tumulto di passioni: il giovane Bob Dylan inviava (invano, lei lo scoprì molto dopo) lettere da corteggiatore all’eterea Francoise Hardy; Marlon Brando e Miles Davis restarono folgorati dal fascino algido di Juliette Greco. C’era un bacio sempre in agguato, nella notte parigina: e se lo cantavano Aznavour o Becaud potevi fidarti di loro.