La Stampa, 26 febbraio 2023
Sul Superbonus
La crisi del mercato dei prestiti ipotecari negli Stati Uniti nell’estate 2007 mise fine a un paio di decenni di crescita ininterrotta in America (gli economisti dibattevano allegramente della «fine del ciclo economico», con l’emergere di fasi depressive a quelle espansive) e fu forse la causa maggiore della crisi finanziaria del 2008 e della successiva «Grande Recessione». Rappresentò anche il brusco e amarissimo risveglio dal sogno americano di «una casa per tutti» con cui si era ammantata una realtà di mutui troppo facilmente concessi, e in molti casi superiori al valore della stessa casa, istituzioni finanziarie all’arrembaggio del mercato, valori immobiliari troppo velocemente crescenti, e una politica governativa troppo compiacente. Cancellazione di crediti, pignoramenti, fallimenti, licenziamenti in massa costituirono non soltanto il mesto epilogo della bolla dei mutui subprime ma anche l’inizio di una crisi economica globale che sconvolse, e per anni, il mondo intero.L’episodio è forse uno degli esempi più eclatanti di ciò che, in economia, si intende per «insostenibilità» di una situazione o di una politica. L’insostenibilità non è definibile in modo preciso, con numeri e meno ancora date, ma in generale se ne possono vedere segni anticipatori, che dovrebbero servire come campanelli d’allarme per correggere una rotta sbagliata. Come nel caso di un soggetto a rischio di infarto per pressione alta: nessun medico può dirgli quando l’infarto si manifesterà ma tutti concorderebbero sulla necessità di medicine e su ammonimenti riguardo allo stile di vita.Un paragone tra la crisi americana dei mutui e l’attuale trambusto nostrano sul Superbonus sarebbe azzardato: là la crisi nacque nel mercato e comportò un’ingente spesa pubblica successiva per i salvataggi; qui il flusso di denaro che finanzia le ristrutturazioni edilizie arriva, attraverso il credito fiscale, dal bilancio pubblico, che potrebbe esserne travolto se il provvedimento non fosse ricondotto a un ambito di ragionevolezza. Non è tuttavia improprio riflettere su alcuni elementi di non sostenibilità della misura, che potrebbero dare ragione allo stop che ne ha decretato il governo, se lo stop fosse stato gestito in modo avveduto, cosa che non è però avvenuta, rendendo quasi inevitabile un rinnovo e, per conseguenza, un ennesimo dietrofront di un provvedimento del governo.Nato nell’emergenza economica causata dal Covid (con il 9 per cento di caduta del Pil nel 2020!), il Superbonus aveva chiaramente la buona intenzione di sostenere la ripresa della nostra economia, puntando su un settore, l’edilizia, capace di generare a cascata, per ogni euro di spesa, un «valore aggiunto» (reddito) superiore a quello di quasi tutti gli altri settori. E per di più un settore molto caro agli italiani, che alla casa di proprietà tengono molto più dei cittadini di altri Paesi: il nostro tasso di proprietà, al 73 per cento, è infatti di gran lunga superiore a quello della Germania e della Francia (rispettivamente al 50 e 64 per cento). Non a caso, l’Italia è tra i Paesi in cui il trattamento fiscale sulla casa è tra i più generosi. È un altro degli aspetti dello squilibrio generazionale perché la proprietà è molto elevata tra le classi di età anziane (che spesso hanno abitazioni di dimensioni eccessive rispetto ai loro bisogni) e molto meno tra quelle giovani, tanto che è lecito domandarsi cosa se ne faranno i giovani, sempre meno numerosi e con prospettive occupazionali risicate, di una casa che riceveranno in eredità a un’età già avanzata.Che il Superbonus non fosse sostenibile era d’altronde evidente fin dall’inizio. E non solo per la sua temporaneità che ha anzi generato – in un Paese nel quale, come scrisse Prezzolini, «non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo» – gare di velocità per arrivare primi, congestioni nel settore e forti aumenti nei prezzi delle forniture e dei servizi («tanto paga lo stato») e pressioni per un rinnovo da parte di quelli che non ce l’hanno fatta al primo turno: famiglie escluse; imprese che si sentono legittimate da investimenti fatti contando su eguali agevolazioni in futuro; lavoratori che comprensibilmente vorrebbero la continuità dell’occupazione. Insostenibile anche per la generosità dello sconto: perché il 110 per cento? Non bastava coprire il costo dell’efficientamento energetico? Per l’insufficienza del controlli, che ha favorito abusi e truffe. Per il favore ai benestanti/ricchi che ne hanno usufruito ben di più dei poveri, in una redistribuzione perversa della ricchezza. E soprattutto per l’impatto sulla finanza pubblica. Certo, ci sono i “ritorni” che però: i) sono stimati in misura alquanto incerta, ciò che dovrebbe sempre suggerire prudenza; ii) non è detto che non sarebbero stati superiori se le risorse pubbliche fossero state investite altrove, in attività dotate magari di un minore moltiplicatore nel breve periodo ma di maggiore effetto propulsivo della crescita di medio-lungo periodo, come infrastrutture pubbliche delle quali il Paese ha molto bisogno, anche per ridurre diseguaglianza e divari territoriali.C’era la possibilità di uscire meglio dal provvedimento. Sarebbe però stato necessario almeno un minimo di coerenza: difendere a spada tratta il Superbonus stando all’opposizione e cancellarlo in fretta e furia una volta al governo (ma dopo le elezioni regionali) fa sorgere molti dubbi sulla vera natura del decreto. È vero: il Parlamento è già all’opera per le correzioni ma, dopo polemiche alquanto animose, numeri gettati a caso nella mischia, previsioni di fallimenti a catena nel settore, è difficile pensare che ne uscirà una legge capace di risolvere in maniera equilibrata sia il problema degli incagli, sia quello di una graduale e credibile uscita dal Superbonus.Adesso il governo si trova stretto tra un Parlamento dove la dose di populismo, anche nella maggioranza, è ancora molto alta e che vorrebbe perciò il evitare ruolo di terminator del Superbonus, e la necessità di preservare risorse per ridurre le imposte, con la riforma fiscale, e l’età di pensionamento, con quella pensionistica. È facile prevedere che Giorgia Meloni, forte della sua popolarità e di un mandato ancora all’inizio, troverà anche questa volta un compromesso. È anche facile prevedere che, di compromesso in compromesso, il Paese continuerà a perdere colpi.