La Stampa, 26 febbraio 2023
La storia delle concessioni pubbliche
La lunga storia delle concessioni balneari italiane precede la nascita della Repubblica. Correva il 1942, e l’allora governo fascista del Regno, modificando il codice della navigazione stabilì che «nel caso di più domande di concessione relative allo stesso bene demaniale», lo Stato dovesse preferire «quella che offriva le maggiori garanzie di proficua utilizzazione del bene e proponesse di avvalersene per un uso che rispondeva a un rilevante interesse pubblico». Detta in poche parole: la gestione completamente discrezionale delle licenze. Da allora non è cambiato nulla, anzi. Nel 1993, con una modifica allo stesso codice è stato inserito il «diritto di insistenza», il cui significato è questo: i vecchi gestori sono preferibili ai nuovi, e ogni sei anni gli si può rinnovare la fiducia, senza alcuna condizione. Un principio che il Consiglio di Stato (massimo organo della giustizia amministrativa) inizia a contestare già nel 2005. La palese e sfacciata violazione di ogni principio di parità di trattamento (anche fra imprenditori italiani) si incrina nel 2010, dopo il recepimento della direttiva Bolkenstein sulla concorrenza del 2006. La direttiva prende il nome dall’economista olandese Frederik Bolkestein, allora responsabile per il mercato interno della Commissione guidata da Romano Prodi. Il principio è semplice: promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati dell’Unione. Applicata con entusiasmo in alcuni settori (le società calcistiche, ad esempio) la direttiva è stata fin qui evitata per molte concessioni pubbliche. Non solo per gli stabilimenti balneari, ma anche – ad esempio – impianti sciistici, termali, financo le concessioni idroelettriche, anch’esse oggetto delle contestazioni europee fin dal 2010. Licenze che spesso pagano canoni risibili a fronte dei profitti garantiti con l’uso di aree e risorse pubbliche. A.BA.