Corriere della Sera, 26 febbraio 2023
Perché l’Italia declina da trent’anni
Caro Aldo,
il mio giudizio sulle maggiori forze politiche affermatesi dopo la Prima Repubblica è molto critico. Ho solo il dubbio se la crisi in cui è entrato il nostro Paese negli ultimi decenni sia una causa o un effetto dell’affermazione di questi partiti. Il leghismo sventolando prima l’indipendenza, poi il federalismo e l’autonomia ha moltiplicato i posti e i costi della politica e quelli dipendenti dalla stessa nei vari enti pubblici e locali. Il forzismo berlusconiano ha inaugurato la stagione del populismo che non bada a vincoli di spesa per accontentare gli elettori e guadagnare consensi. Sul fallimento di questo è infine venuto fuori il grillismo dell’antipolitica e del disastroso concetto dell’«uno vale uno». Purtroppo per noi, e ancora di più per i nostri figli, risulta impietoso il confronto tra queste forze politiche, i loro capi e il loro personale e quelli delle formazioni politiche che hanno caratterizzato la Prima Repubblica.
Fabio RampoldiCaro Fabio,
non c’è dubbio che il nostro Paese da almeno trent’anni sia in declino. Ai tempi del governo Craxi annunciammo il sorpasso sul Regno Unito: eravamo la quinta economia del mondo, e tallonavamo la Francia. Oggi nella classifica della World Bank il Regno Unito è nettamente davanti a noi, anche l’India ci ha superati, oltre ovviamente alla Cina, mentre il prodotto interno lordo della Germania è più del doppio di quello italiano. Altre statistiche sono più generose verso il nostro Paese perché danno maggior peso al sommerso, cioè al nero. Ma, a parte i capitali di origine criminale, la ricchezza prodotta senza pagare tasse e contributi non dà alcun apporto allo sviluppo civile e sociale del Paese; rimane appunto ricchezza privata, spesso al sicuro nei paradisi fiscali.
Resta da capire il motivo di questo declino. Certo, un Paese che ha più cani che figli e (in alcune regioni) più pensionati che persone al lavoro non ha un grande avvenire; non occorre essere grandi economisti per capirlo. Ma non è solo questione di demografia o voglia di lavorare. Trent’anni fa crollarono i due pilastri su cui l’Italia della Prima Repubblica aveva costruito il proprio modello di sviluppo: una spesa pubblica generosa e una moneta debole, con svalutazioni competitive che rafforzavano il made in Italy e l’export. Eppure oggi il problema non sono i soldi, visto che non riusciamo a spendere i fondi europei, e non è neppure l’export, che va bene, a volte benissimo. La questione è la competitività, l’innovazione, le infrastrutture, la formazione scolastica e universitaria, la difficoltà delle piccole imprese ad accorparsi e a darsi quella dimensione che consenta i necessari investimenti nella tecnologia e nel personale. E, come ricorda lei, la selezione della classe dirigente. Senza che questo debba farci rimpiangere la Repubblica dei partiti.