Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 25 Sabato calendario

Una lettera di Bakunin da Torino

La lettera alla contessa Elizaveta Salias-de-TournemireChe bei giorni con Garibaldi a CapreraMichail BakuninSua Nobiltà,(...) mentre scendevamo dal Moncenisio verso l’Italia nella notte tra il 10 e l’11 gennaio, ci siamo ribaltati, per fortuna non dalla parte del burrone ma dall’altra, e senza il minimo danno per nessuno; io mi sono fatto solo un taglio a un dito con un vetro al quale mi appoggiavo per non schiacciare con la mia carcassa il povero ungherese che viaggiava con me. Ho considerato questo piccolo incidente di buon augurio. Quando sono partito dalla Siberia lasciando Kjachta, sempre di notte, secondo l’uso russo, sulla troika che mi trasportava mi sono quasi spaccato il cranio contro la barra abbassata, ma anche lì me la sono cavata con un dito rotto. Poi, lungo l’itinerario verso Londra, mi è andato tutto bene. Lo stesso qui. Finora tutto va bene.A Torino abbiamo trovato la Siberia. La povera Antosja non sapeva come ripararsi e per poco non si è ammalata per il freddo, ma gli dei l’hanno salvata. (…) A Torino siamo rimasti cinque giorni, a Genova tre, ma il 19 siamo partiti per Caprera in compagnia di un giovane spilungone inglese e di tre signore inglesi, due avvenenti e graziose e una davvero racchia. Questa inglese di una certa età e non bella è una dama ricchissima ed esaltata invaghita alla follia di Garibaldi; non contenta della porzione di entusiasmo che le ha concesso la natura, si aiuta anche con bicchierini di cognac cui aggiunge qualche goccia di cloroformio, cosa che le procura un naso paonazzo. Cosi sorride senza posa a tutti quanti, tranne ad Antosja, che detesta perché è gelosa del suo rapporto con Garibaldi e verso la quale, per tutto il tempo che siamo rimasti a Caprera, ha lanciato occhiate furenti.Garibaldi ci ha accolti amichevolmente e ha fatto a entrambi una forte impressione. Si è ristabilito completamente e, anche se zoppica un poco, è forte come un leone ed è attivo dal mattino alla sera. Cura di persona il suo orto che, pur non essendo esteso, è estremamente interessante perché interamente coltivato con le sue mani sulla petraia e tra le rocce. Un aspetto triste e magnifico. C’è poi una sola casa bianca, solennemente chiamata Palazzo Garibaldi, una più piccola in metallo, una terza ancora più piccola in legno. Nel frutteto ci sono tutti gli alberi del Mezzogiorno: aranci, limoni, olivi, mandorli, viti, fichi, palme da datteri eccetera, e tanti fiori; in fiore, però, c’erano solo qualche mandorlo e delle adorabili rose bianche. A Caprera, estate russa. Siamo rimasti tre giorni e tutti e tre sono stati splendidi; la sera e la notte faceva addirittura caldo.(...) Lì c’è una vera repubblica democratica e sociale. Non vi si conosce la proprietà; tutto appartiene a tutti. Si ignora anche la cura della persona: tutti indossano abiti di tela spessa con colletti aperti, camicie rosse con le braccia scoperte; tutti sono abbronzati dal sole, tutti lavorano insieme e tutti cantano. In cima, sulle rocce, c’è un piccolo mulino a vapore e ogni volta che è in funzione è una gran festa. E tutti sono indaffarati, alcuni portano l’acqua, altri mettono sul fuoco rami e ceppi, che abbondano sull’isola, altri ancora stanno in piedi o distesi sugli scogli, in pose pittoresche, per parlare di politica, delle campagne passate o future, o ancora cantano. Insomma, a Caprera si trova un piccolo cenacolo di uomini giovani, sani, robusti e coraggiosi, ognuno dei quali si è distinto per qualche particolare atto di coraggio, un sodalizio che mi ricorda le prime pagine del Corsaro di Byron. Ma in mezzo a loro, maestoso, imponente, con un sorriso dolce sulle labbra, il solo a essere lindo, il solo a essere bianco in mezzo a quella folla bruna e forse un tantino sudicia, Garibaldi, con la sua espressione profondamente melanconica, sia pure solo esternamente, produce un’impressione indefinibile. È infinitamente buono e la sua bontà si estende non solo agli uomini, ma a tutte le creature. Ama i suoi due buoi, le sue vacche, i suoi vitellini, i suoi montoni; tutti lo riconoscono, e non appena si mostra tutti corrono da lui, che li accarezza uno per uno, che ha per ognuno una buona parola. Mi hanno raccontato che un giorno aveva trovato un agnellino che si era perso e cercava la madre: lo prese in braccio e la cercò per quattro ore tra le rocce; non trovandola portò l’agnello a casa sua, mise della paglia accanto al suo letto, si fece portare una spugna imbevuta di latte e rimase disteso tutta la notte con il braccio teso con in mano la spugna dalla quale l’agnello succhiava il latte. Il giorno seguente si alzò presto e cammino con l’agnello in braccio per due o tre ore, finché non ebbe ritrovato la madre. Un’altra volta, vedendo un giovane che spezzava dei rami senza ragione, gli disse: «Perché lo fai? Si deve rispettare tutto quello che vive». La sua religione è come la vostra, crede in Dio e nel destino storico dell’uomo. «Al di là di questo», dice, «non so niente».Vi ho già detto che le sue riflessioni sono di una tristezza profonda, soffocata. Così doveva essere la tristezza di Cristo quando diceva: «La messe è abbondante, ma i raccoglitori sono pochi!». Così è la tristezza del nostro uomo maturo, che ha consacrato tutta la vita all’emancipazione e all’umanizzazione dell’uomo. Perfino i grandi uomini, dunque, perfino quelli più fortunati non raggiungono il proprio scopo. E tuttavia è necessario sforzarsi e tirarsi dietro il mondo per farlo avanzare. Nel mezzo di una lunga conversazione con lui, Garibaldi mi ha detto: «Negli ultimi tempi ne ho abbastanza della vita; le avrei detto volentieri addio, ma avrei voluto morire per il bene della mia patria e per la libertà di tutti i popoli. Avevo intenzione di andare in Polonia, ma i polacchi mi hanno mandato a dire che laggiù sarei stato inutile e il mio arrivo avrebbe provocato più male che bene, così ho rinunciato. Del resto, anch’io suppongo di essere più utile per loro qui che non laggiù. Se facciamo qualcosa in Italia, sarà di vantaggio anche per la Polonia che, oggi come sempre, gode di tutta la mia simpatia».Senza dubbio Garibaldi si prepara, con tutto il suo partito del cambiamento, all’azione di primavera. In che cosa consisterà questa azione, è ancora difficile dirlo. Gli ostacoli sono tanti. La guerra, o ancor meglio la rivoluzione in Germania, possono far avanzare singolarmente tutti noi. Ma di questo le parlerò in un’altra lettera che le scriverò dopo che lei avrà risposto a questa mia e alla precedente.Ora ritorno a Garibaldi. È stato estremamente gentile e amabile con mia moglie, con gran dispiacere dell’inglese ubriacona col naso paonazzo. Una volta che era in nostra compagnia, ha fatto salire mia moglie su una barchetta e ha preso egli stesso i remi mentre lei raccoglieva con una lunga pertica i ricci, una sorta di frutti di mare.Il 23 siamo tornati a Genova e il 26, via Livorno, siamo arrivati a Firenze. E io, glielo rivelo in segreto, sono già innamorato dell’Italia e ho dato la parola a mia moglie che in un mese imparerò l’italiano.Firenze, 1 febbraio 1864, corso Vittorio Emanuele 5, primo piano.