Tuttolibri, 25 febbraio 2023
Bakunin in Italia
Per circa tre anni, tra il 1864 e il 1867, Michail Bakunin visse in Italia, la percorse da nord a sud, la osservò prima con l’occhio del viaggiatore e del pensatore politico, poi con quello dell’innamorato, infine con quello di chi è costretto ad abbandonare una patria; si stabilì a lungo a Napoli – che di tutte le città gli sembrava la più viva e la più piena di fermento rivoluzionario, ma non solo: amava visceralmente il caffè, ne sorbiva di continuo, e allora come oggi non c’era posto migliore, in Italia, per sedersi in un bar. Poiché aveva un’infarinatura di italiano, si trovò a suo agio nel leggere i quotidiani e nel documentarsi sulle questioni politiche e sociali che infiammavano il nostro Paese.Erano anni di fermento, sia per lui che per l’Italia: quando vi arrivò, l’Unità era stabilita da soli tre anni, ma il Paese era tutto da immaginare, da costruire, era un cantiere che da poco era stato aperto e che, in fondo, non è ancora stato chiuso, e Bakunin ne osservò e registrò tutti i sommovimenti, le contraddizioni, le ingiustizie e i dolori; ma erano anni cruciali anche per lui, come persona e come pensatore: è proprio nel 1864 che Bakunin, senz’altro influenzato anche dal clima che respirò nel nostro Paese, comincia a dedicare tutte le sue forze fisiche e intellettuali al Socialismo rivoluzionario. Vede, in questa nuova Italia, unita con un certo arbitrio e tenuta insieme a fatica, il malcontento delle classi subalterne, lo annusa, e pensa che qui da noi ci sia il terreno più fertile per far scoccare la scintilla di quella rivoluzione libertaria che ha in mente di far deflagrare, a piccole tappe, in tutta Europa. Così, a Firenze fonda un giornale (Libertà e giustizia) e un’associazione segreta, e poi gira, incontra rivoluzionari vecchi e giovani, e soprattutto scrive. Questi scritti, che parlano dell’Italia e della sua situazione, sono radunati in un piccolo volume, curato da Lorenzo Pezzica, uscito per elèuthera nel 2013 e oggi riproposto al pubblico con una nuova veste grafica. Si chiama Viaggio in Italia e raccoglie ciò che Bakunin scrisse tra il 1864 e il 1873, quando ormai dall’Italia si era separato ma la osservava da vicino, dalla Svizzera, con gli occhi forse colmi di rimpianto perché no, la rivoluzione nel nostro Paese alla fine non c’era stata.Uno vorrebbe leggere questi testi con l’occhio dello storico del pensiero, vale a dire con il distacco che è dovuto a degli scritti vecchi di oltre un secolo e mezzo, che ritraggono, in modo impietoso ma pacato, un mondo che non c’è più. Invece sentite come inizia il primo articolo antologizzato, La situazione italiana (1866): «In questo periodo l’Italia si trova in una condizione triste e pericolosa. Tutti sono spaventati dalle funeste certezze dell’oggi e dalle ancor più temibili incertezze del domani. E in balia di questi dubbi e paure, ognuno cerca sostegno nel consiglio e nella forza degli altri per rinforzare le proprie opinioni». Potrebbe essere l’attacco, amaro, del fondo di un quotidiano di oggi. Ovviamente resisterò all’impulso di scovare, in questi scritti di Bakunin, visioni del futuro o profezie: eppure, l’Italia di cui egli parla non è, per molti aspetti, diversa dalla nostra. Bakunin scrive che il nostro è un Paese economicamente bloccato, depresso, sottomesso alla Chiesa, allo Stato centralista e a una serie infinita e ineludibile di privilegi di casta, un posto dove manca la fiducia e la mobilità sociale. E ne approfitta per lanciare strali a Mazzini, il grande uomo ormai decaduto, che pure è ancora, per Bakunin, un avversario. Mazzini non è stato un autentico rivoluzionario, anzi: ha condiviso la visione generale della monarchia e non ne ha minato le fondamenta. Ascoltate: «(...) se la burocrazia, il militarismo, il centralismo, il monopolio garantito e le grandi banche privilegiate sono il veleno che ci uccide, i vampiri che ci dissanguano, a che cosa dovrebbe servire la repubblica mazziniana, che non contraddice nessuno di quei fatti fatali?». Parole che suonano come un epitaffio, soprattutto se le si legge insieme a ciò che Bakunin scrive nell’articolo successivo, forse il più importante della raccolta: Le cinque nazioni (1871). Vi sono in Italia cinque nazioni: il clero, la consorteria (nobiltà e alta borghesia), la media e piccola borghesia, infine gli operai e i contadini. Il Paese è stato fatto dalla media e piccola borghesia, che si è inventata una letteratura, si è applicata nelle scienze, nell’industria, nel commercio e così via, ma che ora è stanca, vuota, sfibrata. Il proletariato è oppresso, nelle sue fila fermentano certi motivi rivoluzionari che vanno coltivati perché, come Bakunin ribadisce chiaramente in un altro pezzo, Nessuno può restare indefinitamente in preda alla disperazione, la quarta classe è disperata, e quando il popolo è disperato la rivoluzione è vicina; ma non si può ancora farla, questa rivoluzione, perché non c’è un legame tra operai e contadini, anzi, tra loro c’è sospetto, distanza. I contadini italiani sono fuori dalla Storia, sono sistematicamente esclusi dai processi politici, sono analfabeti e subalterni, e non se ne rendono conto.L’Italia ritratta da Bakunin è insomma un Paese immobile, povero, governato dall’alto con l’idea di salvaguardare certi interessi di casta, ignorante, e però contiene delle nicchie di consapevolezza – una consapevolezza data dalla fame e dallo sfinimento: è lì che bisogna lavorare, è da queste nicchie che bisogna partire per far esplodere la rivoluzione. Napoli è un luogo privilegiato, da questo punto di vista, perché lì si è più poveri che altrove e, di conseguenza, anche più consapevoli. Bakunin ci è arrivato dopo una serie di tappe: la prima a Torino, dove ha trovato un freddo siberiano che gli ha restituito l’aria di casa; poi Genova e Caprera, dove è stato ospite di Garibaldi, uomo per cui nutre una forte ammirazione. La visita a Caprera è un piccolo spartiacque di questo suo viaggio: vi rimane tre giorni, se ne va che ormai è irrimediabilmente innamorato del nostro Paese. Poi Firenze e infine, appunto, Napoli. Questi suoi innamoramenti, ma anche le arrabbiature e le utopie, ci arrivano anche da una serie di lettere – alcune bellissime – messe in appendice. Sono lettere a pensatori rivoluzionari come Marx, con cui all’epoca i rapporti erano ancora buoni, o come Herzen e Ogarëv, ma anche all’amico anarchico Gambuzzi, a membri della sinistra italiana, a protagonisti minori del Risorgimento.Egli è convinto davvero che l’Italia possa essere la culla della rivoluzione e, in certi momenti, l’ostacolo a un completo sviluppo della coscienza politica del popolo sembra essere solo uno: Dio. «Da secoli Dio è la base di ogni tirannia» scrive «in suo nome (...) i despoti hanno dominato i corpi e le volontà; per questo la rivoluzione, che si avvicina fatale e inesorabile, spazzerà via (...) i precetti subdoli e vili della rassegnazione e della fede». Una volta instillato l’ateismo nelle classi subalterne italiane, non ci saranno più ostacoli al processo rivoluzionario. Ecco, se c’è una cosa della coscienza degli italiani che Bakunin non comprese è che, di tutte le utopie, questa è la più irrealizzabile.