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 2023  febbraio 25 Sabato calendario

William, il pediatra poeta


Le vie della poesia contemporanea sembrano davvero infinite. William Carlos Williams, uno dei più importanti poeti americani del secolo scorso, è stato un esponente per molti versi esemplare, ufficiale quasi, del cosiddetto modernismo, ovvero di quell’orientamento che nei primi decenni del Novecento ha trasformato profondamente l’intero campo dell’arte recidendo, in molti casi radicalmente, il rapporto con la tradizione in nome di un nuovo rapporto delle forme espressive con la vita e, soprattutto, col presente. Eppure, a complicare subito le cose, il sentimento di Williams per la vita stessa è stato di straordinaria reverenza, di complicità, di empatia e, insomma, di fiducia o di fede, al punto da renderlo sotto quest’aspetto vicino ai poeti che hanno avvertito la modernità non solo come strappo o rivoluzione, ma come necessità di cucitura, di medicamento, di ricostruzione di un rapporto consensuale con la natura e con le forze del mondo vivente. Per lui la vita viene comunque prima, ed è sacra; e l’invenzione poetica non è solo o tanto un fatto formale, ma un evento che comporta una trasformazione sensibile e spirituale che consenta al poeta l’identificazione, la partecipazione e, solo per questa via, il riconoscimento pieno di tutto quello che è l’altro da sé.
Forse è proprio per rimarcare questa ambigua, difficile collocazione che Luigi Sampietro, introducendo A un discepolo solitario, una bella scelta della poesia di Williams uscita a sua cura per Bompiani, ne ha rimarcato l’appartenenza a una cospicua genia di scrittori di formazione medica e scientifica prima, e magari anche più, che letteraria (la traduzione è di Damiano Abeni; tra i precedenti autorevoli che si sono cimentati con l’opera del poeta americano è giusto ricordare almeno Cristina Campo, Vittorio Sereni e Alfredo Rizzardi, il traduttore di Paterson, un grande, meraviglioso poema – uno dei pochi davvero riusciti tra quanti apparsi nel Novecento – composto nel corso di più di due decenni). «Al di là dei sempre incerti confini delle correnti letterarie – scrive infatti Sampietro – Williams appartiene anzitutto alla “bella scola” dei medici-scrittori, dei dottori-poeti che non distolgono lo sguardo dalle piaghe del nostro corpo e della nostra moderna società, né si limitano ad additarle al nostro disgusto, ma le studiano e le analizzano con carità e compassione».
Un medico, dunque, e più precisamente un pediatra. Prima ancora che la letteratura Williams aveva sotto agli occhi l’energia e la fragilità del destino umano, la presenza ineludibile delle donne e degli uomini più diversi, tutti con le loro lingue e con le loro esistenze sempre concrete e particolari, sempre incredibilmente esposte. Conosceva le ferite, il patimento, il dolore, ma allo stesso modo avvertiva l’erba che cresce, amava la primavera, sentiva la vita che spinge e spinge e si rigenera (ha assistito, è bello ricordarlo, a più di 2 mila nascite); e credeva fermamente che la bellezza, anzi, che «il nocciolo duro della bellezza», compresa ovviamente quella poetica, fosse non solo una testimonianza d’armonia e di giustizia, ma anche una via d’accesso alla comprensione e alla condivisione profonda della sorte comune dell’uomo e della vita tutta. «René Char/ tu sei un poeta che crede/ nel potere della bellezza/ capace di sanare ogni malattia./ Anche io ci credo», scrive in A un cane ferito per strada, una poesia-capolavoro che mette alla prova i nostri stessi convincimenti in fatto di parole e di cose, di forma e di vita, e di conseguenza, all’unisono, di etica e d’estetica.
Una singolare specie di modernista francescano sarebbe dunque Williams? Beh, in un certo senso sì, visto che è un poeta sociale e comunitario, e un poeta della creatura umana che è essa stessa parte della natura, senza tuttavia essere minimamente ideologico; un poeta umanamente, civilmente impegnato non per qualche astratto programma politico-letterario (lui che pure era dichiaratamente liberal), ma per un’obbligazione morale e, ancor più, per vincolo d’amore. «Si è lontani da Assisi/ ma non troppo lontani»: inizia così Il giardino dell’ospedale psichiatrico, una poesia il cui titolo vale una poetica.
Sperimentale o formalmente agguerrita fin che si vuole, tanto più negli esordi di più stretta osservanza modernista, questa poesia ribadisce comunque un patto primo e ultimo con la realtà del vivente che non viene mai meno. Di fatto la voce che parla in queste poesie è sempre amorevole, solidale, fraterna. Come lui stesso ha raccontato, quando, ancora molto giovane, aveva conosciuto Ezra Pound, che lo avrebbe poi iniziato ai misteri della poesia contemporanea, era ancora innamorato di John Keats e di Walt Whitman (Williams era nato nel 1883 a Rutherford, New Jersey, dove morì nel 1963; Pound era due anni più giovane, ma il grande padre fondatore della poesia del Novecento, in anticipo su tutto e tutti, è comunque lui). Da quel momento Williams avrebbe scritto diversamente, a suo modo, certo, e in costante e positiva evoluzione, ma pur dentro al grande quadro della letteratura di spirito appunto modernista. Eppure si può dire che l’imprinting di quei due grandi maestri, sarebbe poi sempre stato il suo: la partecipazione, l’empatia, l’anima vasta e accogliente, la condivisione, il compatimento, la magnanimità, la solidarietà per la sorte del mondo creato e delle sue creature.
Anche per questo è stato un poeta non delle astrazioni o delle grandi sintesi storico-epocali, quanto invece dei particolari concreti, dell’umanità ogni volta singolarmente determinata che si vedeva attorno, delle cose e delle situazioni comuni, del paesaggio e della natura che poteva contemplare ogni giorno (tanti alberi e animali, uccelli soprattutto). «Cose del genere/ mi sbalordiscono oltre ogni dire»: è un distico che potrebbe sottoscriversi alla sua intera opera poetica. Questa sua concretezza, questa fedeltà dello sguardo, ne fanno un poeta estremamente americano; un poeta che ha guardato lì, e non altrove (un «americano che più americano non si può», come nota ancora Sampietro, visto che nel suo sangue scorrevano più sangui diversi). Ma, a questo punto, proprio perché si è rivelato capace di comprendere, di fare propri, di mettere a fuoco quei suoi particolari territori, l’immaginario poetico di Williams ha bruciato la pagina, per parlare non ad altri che a noi: «Era l’amore per l’amore,/ l’amore che ingoia tutto il resto,/ amore riconoscente,/ amore della natura, delle persone,/ un amore che dà vita a/ gentilezza e bontà/ che mi ha commosso/ ed è quello che ho visto in te».