La Lettura, 25 febbraio 2023
Intervista a Maria Ressa
«Per salvare la democrazia, dobbiamo reinvertarci cittadini più che consumatori», suggerisce Maria Ressa mentre cammina a passo lesto verso la sua scrivania. Appare più leggera del solito, dallo schermo. Non ha in spalla la borsa di emergenza con pigiama, spazzolino e cambio che portava sempre con sé, in caso di arresto improvviso. E ha dismesso pure il giubbotto anti-proiettile indossato per anni nelle strade di Manila, manco fosse al fronte. Appare sollevata: sarà che il mese scorso è stata assolta dall’accusa di evasione fiscale. «In realtà sono ancora scioccata, ho corso il rischio di andare in prigione per più di trent’anni con imputazioni assurde, totalmente infondate, come la corte stessa ora ha riconosciuto». Una vicenda che si trascinava dal 2018, quando l’allora presidente Rodrigo Duterte aveva intimato la chiusura di «Rappler», il suo giornale online che univa inchieste coraggiose a modelli partecipativi per sfidare gli abusi di potere e l’impunità della sua sanguinosa guerra alla droga. In questa lotta di Davide contro Golia, Ressa ha fatto leva sui fatti e sulla gente. L’idea di usare i social per mobilitare i lettori le è venuta dalla sua esperienza di corrispondente della Cnn, da Giacarta e Manila, quando indagava sulle tele virtuali tessute dai jihadisti e scoprì che alcuni terroristi del World Trade Center si erano «formati» nelle Filippine.
«Se i cattivi riescono a convincere qualcuno a diventare un attentatore suicida, perché non possiamo usare queste stesse reti per il bene sociale, per stimolare azioni civiche e creare una democrazia più forte?», è stato il suo pensiero guida. Così «Rappler» diventò subito un partner di Facebook, già all’avanguardia su tanti fronti: dai suoi misuratori di stati d’animo che hanno preceduto gli emoji di Zuckerberg alle dirette con il cellulare già nel 2012, anni prima di Facebook Live. Soprattutto «Rappler» per primo ha quantificato la portata esponenziale della disinformazione: «Un falso account di Facebook poteva raggiungerne altri 3 o 4 milioni». Poi la disillusione: gli allarmi lanciati da Ressa al social sul rischio concreto che le piattaforme si trasformassero in armi d’attacco caddero nel vuoto. «Facebook ha impiegato cinque anni a prendere provvedimenti», reclama oggi. Poi le Big Tech hanno cercato di correre ai ripari, filtrando la folla di troll e hater. Ma il problema – avverte Ressa da tempo – è a monte ed è duplice: il loro modello di business basato sul traffico e la loro impunità.
Proprio in questi giorni per la prima volta la Corte Suprema Usa sta affrontando il primo caso che chiama in causa la legittimità di una legge federale del 1996, uno dei pilastri di internet – la Section 230 della Communications Decency Act —, secondo cui le piattaforme non sono penalmente responsabili per i contenuti realizzati da altri. In sostanza YouTube, Twitter o Facebook non sono considerati come editori, ma come semplici diffusori di materiale altrui. Tutto è partito dalla denuncia contro Google presentata dai genitori di una studentessa americana uccisa a Parigi dai terroristi del Bataclan nel 2015. L’accusa è di avere favorito il proselitismo dell’Isis con i suoi algoritmi. I giudici supremi devono stabilire se i social abbiano responsabilità quando indirizzano gli utenti su video o testi con i loro algoritmi.
Maria Ressa è stata più volte in audizione al Congresso americano. Arrivare a un nuovo paradigma condiviso per l’internet del XXI secolo è fondamentale per il destino delle democrazie, chiarisce lei in Come resistere a un dittatore (in uscita per La nave di Teseo), memoir e manifesto per ricostruire la legalità democratica, dove mostra «gli effetti devastanti» dell’assenza di uno Stato di diritto nel mondo virtuale. «Se non sei sotto attacco non te ne accorgi», osserva. Ressa prima è diventata un bersaglio online, con insulti e falsità diffuse via social. Hanno preparato il terreno a quelle piovute poi dall’alto, con Duterte che ha attaccato «Rappler» persino nel suo discorso sullo stato della nazione nel 2017. Ma lei non si è fatta intimorire. Ha imparato presto ad «abbracciare» la paura per evitare di soccombere. Il ricordo è in un aneddoto dolceamaro: aveva 10 anni, da 9 era orfana di padre e da pochi mesi si era trasferita nel New Jersey, all’altro capo del mondo rispetto alla casa dei nonni paterni, a Manila, dove era cresciuta, la madre partita Oltreoceano. Proprio sua madre un giorno, all’improvviso, tornò nelle Filippine a «rapirla», accompagnata dal nuovo marito, l’italo-americano Peter Ressa. Si ritrovò in un mondo diverso che lei avrebbe imparato a conoscere anche a suon di equivoci. Un giorno, al pigiama party di una compagna di scuola, scoprì di essere l’unica in tenuta da notte, ma invece di tornarsene a casa, restò lì, pur con un grande imbarazzo. «Iniziai a imparare che è meglio affrontare le proprie paure che fuggirle. Così ho cominciato a capire che cosa fosse il coraggio».
Quel coraggio le sarebbe poi tornato utile, una volta rientrata nelle Filippine, per affrontare un dittatore che l’avrebbe presa di mira: dieci mandati di arresto in meno di due anni non sono bastati a farla scappare all’estero. Dalla laurea con lode a Princeton in teatro e danza al giornalismo investigativo, dalla passione giovanile per il pianoforte e l’orchestra all’attivismo, questo libro-memoir mostra come Maria Ressa si sia costruita negli anni i suoi «superpoteri», per dirla con Amal Clooney che ne ha scritto la prefazione, oltre ad averla assistita. Il testo è un racconto avvincente della lotta di questa donna minuta contro il lato oscuro della tecnologia ma anche un manifesto su come affrontare questa «guerra asimmetrica», con gli utenti lasciati vulnerabili alle manipolazioni di chi sparge menzogne. Un percorso che l’ha portata al Nobel per la pace nel 2021. Il coraggio si diffonde nello stesso modo in cui si diffonde la paura, ripete Ressa: «I colleghi di “Rappler” e la nostra comunità mi hanno permesso di sopravvivere a sei anni di Duterte».
La situazione oggi è migliorata?
«Il livello era così basso che era difficile fare peggio. Con Duterte abbiamo assistito al collasso delle istituzioni attraverso la paura. Con Marcos jr la paura è passata. Ma non dimentichiamo che dopo la grande protesta popolare che cacciò il padre dittatore nel 1986, ora abbiamo eletto il figlio a grande maggioranza».
Duterte faceva asse con Mosca e Pechino mentre Marcos jr si è riavvicinato agli Usa e ha parlato con Zelensky. Le Filippine si stanno riposizionando nell’orbita delle democrazie?
«La verità è che ora abbiamo un presidente che si preoccupa di quello che pensa la comunità internazionale e che ha reso l’economia la sua priorità, come aveva fatto suo padre e come è accaduto in molti altri Paesi dopo la pandemia. Questo è un presidente che nei suoi primi 100 giorni ha trascorso più tempo in viaggi all’estero di qualsiasi altro leader. Capisce che la nostra economia richiede investimenti stranieri e cerca di barcamenarsi».
Le due storie più importanti della sua carriera hanno a che fare con le Filippine come banco di prova di due pericoli che minacciano il mondo: il terrorismo e la disinformazione sui social. Crede che la sua condanna per diffamazione informatica verrà annullata dalla Corte Suprema?
«Voglio essere cautamente ottimista. Non dimentico che abbiamo assistito a un mero trasferimento di potere. Il presidente Marcos jr ha vinto grazie a due fattori: l’effetto dinastia – la sua famiglia ha mantenuto alleati nelle Filippine—; e soprattutto la vasta rete di disinformazione messa in piedi sui social già da anni, una rete che ha cambiato la storia sotto i nostri occhi trasformando suo padre da cleptocrate in eroe. Comunque ora abbiamo ottenuto la nostra prima vittoria legale dal 2016. E dopo avere sprecato tempo e soldi per difenderci, adesso possiamo concentrarci sul nostro lavoro».
Su cosa in particolare?
«Stiamo sviluppando una nuova piattaforma tecnologica chiamata Lighthouse (faro, ndr), impegnata a diffondere fatti e non bugie, che ci connetterà senza tentare di manipolarci in modo insidioso come fanno i social, la cui mission è il profitto. Dovrebbe essere pronta per quest’estate. Abbiamo lanciato “Rappler” nel 2012, poi abbiamo costruito una comunità d’azione e il cibo con cui l’abbiamo nutrita è stato il giornalismo. Ma ora dobbiamo assicurarci che il giornalismo indipendente possa sopravvivere ed è per questo che ho accettato di co-dirigere l’International Fund for Public Interest Media, insieme a Mark Thompson, l’ex direttore generale della Bbc e ad del “New York Times”. Nel primo anno, abbiamo raccolto circa 50 milioni di dollari. Con questi fondi vogliamo sostenere media indipendenti».
Lighthouse sembra l’anti-Facebook.
«Credo che il futuro del giornalismo sia costruire reti collaborative concentrate sui fatti a salvaguardia dei processi elettorali e della democrazia. Non abbiamo avuto un’idea chiara delle conseguenze del modello di business di Facebook, Twitter, WhatsApp fino al 2019, quando si iniziò a parlare di capitalismo della sorveglianza, espressione coniata da Shoshana Zuboff: usano i nostri dati per fare soldi e questo ha portato all’erosione della democrazia. Le piattaforme non solo non distinguono tra realtà e finzione, ma danno la priorità alla diffusione delle bugie rispetto ai noiosi fatti perché generano più traffico. E leader populisti usano i social per fare a pezzi la realtà».
Però Bolsonaro è stato sconfitto, Trump battuto, in Francia l’estrema destra non ha prevalso e dopo l’invasione russa dell’Ucraina c’è stato un rafforzamento dell’asse delle democrazie. Il vento non sta cambiando?
«Intanto Bolsonaro ha perso di misura e sta riorganizzando il suo ritorno usando Telegram. C’è poco da stare tranquilli, la macchina dei social è attiva più che mai».
In Nigeria la portata della disinformazione è stata ampliata a dismisura in vista delle elezioni di questo 25 febbraio, denunciano esperti e attivisti.
«Prima di essere esportate in Occidente, queste tattiche di manipolazione di massa sono state testate, oltre che nelle Filippine, anche in Kenya e in Nigeria, Paesi dove era più facile passare inosservati. Ma intercettare queste manipolazioni non basta a neutralizzarle. Quindi se non si ha certezza dei fatti, non si possono avere elezioni corrette. La tecnologia che ci connette ricopre i fatti di bugie. Più aspettiamo a correggere questo, peggio sarà. Il 2024 si prospetta come un punto di non ritorno a livello globale. È l’anno in cui si svolgeranno elezioni chiave: in Indonesia, il Paese con la più numerosa popolazione musulmana; in India, la più grande democrazia, dove sta diventando sempre più difficile raccontare i fatti – nei giorni scorsi il governo ha sferrato un attacco a una sede locale della Bbc per via di un documentario sul premier Modi. Ci saranno anche le presidenziali Usa. Si vedrà se si rafforzeranno o meno le autocrazie».
Perché è così difficile resistere?
«Perché attaccano a un livello biologico, fanno leva sulle nostre emozioni, le peggiori: paura, rabbia, odio. L’impatto è a tre livelli: psicologico, sociologico, evolutivo. Di questo terzo effetto di modifica del comportamento non si parla molto, ma è l’effetto che condiziona il nostro futuro. Non è mai successo che milioni e milioni di persone si potessero radunare su un’unica piattaforma. Sono preoccupanti le ripercussioni sul cervello. I danni oggi sono quantificabili: perché allora non siamo ancora tutelati? Dove sono le istituzioni che dovrebbero proteggerci? Come possiamo impedire la mercificazione della nostra biologia? Nel XVIII e XIX secolo con l’industrializzazione c’è stata la mercificazione del lavoro umano, oggi siamo nell’economia dell’attenzione e assistiamo alla mercificazione del tempo e delle emozioni, una fase molto pericolosa per le nuove generazioni».
«Stanno usando la libertà di espressione per soffocare la libertà di espressione», lei scrive. In effetti il Primo emendamento Usa è stato invocato da quanti sono stati silenziati sui social dopo l’attacco a Capitol Hill. Che il Primo emendamento stia diventando un ostacolo ai tentativi del governo di combattere la disinformazione sembra un paradosso.
«È la tecnologia che ha cambiato le definizioni, con chi produce contenuti fake che sfrutta l’impunità delle piattaforme di distribuzione. Le società tecnologiche stanno portando avanti attività di lobby notevoli: negli anni scorsi hanno guadagnato una grande quantità di soldi e non vogliono smettere. E poi ci sono politici che usano questo per ottenere ancora più potere. Lo spirito della legge negli Usa riguarda la libertà di espressione, il diritto resta, il problema è la distribuzione dei contenuti. Non possiamo combattere da soli contro questo».
Lei suggerisce soluzioni a breve, medio e lungo termine.
«A lungo termine la cosa più importante è l’educazione. Nel medio termine i governi devono intervenire e legiferare per estendere lo Stato di diritto al mondo virtuale. Ma dobbiamo unirci anche a livello globale: una bugia che esce oggi ad Harvard arriva istantaneamente nelle Filippine... Dobbiamo trovare una soluzione globale. A breve termine ci siamo solo noi: dobbiamo collaborare, reinventarci un impegno civico nell’era dei social media».