Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  febbraio 25 Sabato calendario

Il ritorno in libreria di Junky

Sono pochi, probabilmente si contano sulle dita di una mano, i romanzi di cui si può dire la stessa cosa di Junky, ovvero che, per parlarne, ci si potrebbe fermare a quelle poche righe del colophon, che di ogni libro rappresentano l’esatta pagina zero, e analizzarle. Suddette righe riportano cinque date diverse che vanno dal 1953, anno della prima pubblicazione americana, ad oggi. Settant’anni dopo, Junky – sottotitolo, Confessioni di un tossicodipendente irredento –
esordio a dir poco folgorante di William S. Burroughs, ritorna nelle librerie in una finalmente nuova e raggiante traduzione di Andrew Tanzi, a cui la casa editrice Adelphi ha affidato l’arduo compito di dare una voce italiana a colui che viene considerato come il più grande artista sulla tossicodipendenza del Ventesimo secolo. Oltre venticinque opere, tutte o quasi riguardanti sostanze stupefacenti: Burroughs e la roba, si legge nell’introduzione a firma di Oliver Harris, vanno a braccetto.
Tuttavia, forse nessun altro libro è come Junky per una serie di motivi diversi, primo fra tutti per quel suo essere a metà strada tra il reportage giornalistico di strada – siamo, giusto sottolinearlo, all’alba del new journalism alla Tom Wolfe e alla Truman Capote– e l’autobiografia, tra i dialoghi da film hollywoodiani (di serie B, of course) e il gergo del mondo criminale tanto che, a tratti, pare un trattato sulla lingua della malavita.Ma anche, visto che abbiamo messo di mezzo i gerghi, dell’allora subcultura degli hipster anni prima che gli stessi invadessero mezza Brooklyn con quell’aria da bohémien e la tipica insofferenza al conformismo. Junky, lo sappiamo, lo abbiamo già letto ovunque, è per certi aspetti ripugnante ma anche ammaliatore, è complesso e agevole, tragico e ironico, perfettamente costruito su un minimalismo letterario che, di fatto, lo rende un unicum nella produzione letteraria di Burroughs, propensa quasi sempre a dispersioni varie ea flussi di coscienza.
È proprio la sua genesi, che, come dicevamo all’inizio, è racchiusa in quelle poche righe di colophon, a renderlo di per sé materia di studio. A partire dal titolo, nella cui preziosa introduzione si fa un dettagliato resoconto. Questa la storia: Burroughs, in una lettera al suo amico Kerouac, comunicò l’inizio del suo «libro sulla roba». Siamo nell’esatta metà del Ventesimo secolo e lo scrittore si era appena trasferito con la sua famiglia in Messico. La prima stesura riportava semplicemente il titoloJunk ma, quando fu pubblicato tre anni dopo – con Allen Ginsberg che si improvvisò agente letterario e che fece da tramite con la casa editrice – cambiarono sia il titolo che l’autore. Il libro fu pubblicato come Junkie di William Lee, il nome da nubile della madre di Burroughs. La prima edizione aveva una copertina sinistra e vagamente voyeuristica, fu venduta a 35 centesimi e oggi si trova su eBay a settecento dollari. Fu, soprattutto, abbinato a un altro romanzo, come libro doppio, ma il formato di due libri in uno, in realtà, non era raro nell’America di quegli anni. La cosa curiosa è che quella prima edizione vendette in pochi mesi oltre centomila copie, ma nessun criticò la recensì. In America l’umore era paranoico e l’argomento un tabù. Divertente, a tal proposito, scoprire il cruccio di Ginsberg di quei mesi: alla notizia che il libro aveva venduto tutte quelle copie, percorse le bancarelle e le librerie intorno a Times Square, e anche la Quarantaduesima e il Village, alla ricerca del romanzo. Non ne trovò una singola copia. E visto che si trattava delle zone di massimo spaccio della città, gli venne spontaneo chiedersi da dove arrivassero, quei centomila lettori.
Nel corso degli anni, e delle varie pubblicazioni, il sottotitolo fu abbandonato, la dedica tagliata, fu aggiunta una nota dello stesso Ginsberg, furono eliminati i capitoli preferendo un testo continuo, eliminate le censure e, in Italia, fu pubblicato con un altro titolo, La scimmia sulla schiena, riferito ai dolori sul dorso causati dall’astinenza. Ma è anche, questo romanzo, la storia dell’ascesa dell’eroina nell’America negli anni ’50, ascesa in cui c’entriamo anche noi italiani – e figurati – quando i nostri gangster sostituirono gli spacciatori ebrei nel Lower East Side e la purezza dell’eroina di strada precipitò a picco, portando, di conseguenza, a un aumento dell’uso per massimizzare la botta. Burroughs stesso non riuscì mai a guarire dal suo vizio. Morì nel 1997, completamente dipendente dal metadone. Il grande eroe della libertà, omosessuale e assassino, seppur accidentale, di sua moglie, finì egli stesso per esserne schiacciato. «Piaciuto?» chiede, in Junky, un amico al protagonista, dopo aver visto quest’ultimo farsi una dose. «Se Dio ha creato qualcosa di meglio – risponde lui – se l’è tenuto per sè».