il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2023
Bucha, un anno dopo
ll ’alba del 24 Febbraio del 2022 l’esercito Russo invade Ucraina cambiando per sempre il mondo che pensavamo di conoscere. L’ “Operazione Speciale” di Vladimir Putin prevedeva una guerra lampo che grazie a una rapida risoluzione militare fosse capace di detronizzare Zelensky ed instaurare a Kyiv un Presidente alla mercé del Cremlino. Blit – zkrieg è la parola tedesca che descrive la velocità dell’attacco congiunto di forze terrestri ed aeree capaci di distruggere in poche settimane, se non in giorni, le difese del nemico. OGGI SONO PASSATI DODICi mesi, e il blitz è fallito. Se il Presidente Russo avesse sottovalutato la resistenza del popolo Ucraino o se non avesse considerato l’ampio supporto militare fornito dall ’Oc c i d e ntale per la difesa del territorio sovrano, non è chiaro, e ora poco importa. Quello che importa è come in questi mesi la guerra sia stata capace di entrare dentro di tutti noi e lentamente a prendere il sopravvento del nostro corpo e delle nostre menti, allontanando qualsiasi speranza di pace. Le ferite inflitte dalle armi continuano a sanguinare in tutto il paese, ma soprattutto a Bucha, città alla periferia nord della capitale, diventata simbolo del massacro dove nel trecentosessantacinquesimo giorno di conflitto si è celebrato l’anniversario dell ’inizio delle violenze. Sotto un cielo plumbeo che piange tristezza, dalle prime ore del mattino, sparuti gruppi di persone si riuniscono nella Chiesa di Sant’A ndrea, Cattedrale tormentata. Sono soprattutto anziane coloro che ascoltano l’omelia del prete ortodosso Andriy Golovin: gli uomini sono al fronte e le donne rimaste nel paese sono a casa con i loro bambini. Le ore passano ma la gente fatica ad arrivare: a mala pena ne conto un centinaio, forse è troppo doloroso ricordare. Con in mano composizioni di fiori blu e gialli, colori della bandiera Ucraina che simboleggia pace e prosperità, una dopo l’altra si recano in silenzio a porgere omaggio alla lapide, in memoria delle fossa comune scavata proprio sotto questo fango che oggi tutti calpestiamo. L’aria è così fredda che sembra avere congelato anche il dolore. La scarna carovana di gente si muove con la testa china verso i pulmini che l’ammini – strazione comunale ha organizzato per continuare la commemorazione al cimitero del paese, a pochi chilometri di distanza. Con la vicinanza ai propri defunti anche le lacrime prendono sopravvento sulla disperazione. Maria Kurbet si appoggia alla stampella accarezzando le corone di crisantemi colorati sulla tomba di suo figlio: aveva quarantadue anni e il destino l’ha fatto sopravvivere all’eccidio di Bucha per venire ammazzato a Bakhmut, per ritornare poi a casa in una bara. Vicino al suo corpo sotterrato, come a quello degli altri commilitoni, è stata issata la bandiera dell ’Ucraina, blu e gialla, simbolo di pace e prosperità, che oggi sventola per onorare gli eroi nazionali. Come Maria sono decine di migliaia le donne che piangono i propri figli scomparsi per combattere la guerra di liberazione dall ’invasore. In questo modo la morte sembra dovuta, giusta e dovrebbe fare meno male. Quanti siano esattamente le vite spezzate da uno dei conflitti più violenti dell’ultimo secolo è una dato ancora dibattuto. In poche settimane i numeri ufficiali sono cambiati dai diecimila e quindicimila ai ventimila. A un anno dall’inizio dell ’invasione, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Uniti per i Diritti Umani, morti e feriti di questo conflitto, ad oggi, sono più di 20 mila, ma le cifre reali potrebbero essere ancora più alte. Non contandoli i morti sembrano tutti uguali, come i pianti delle donne sulle loro lapidi.