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 2023  febbraio 25 Sabato calendario

In morte di Maurizio Costanzo

Gabriele Romagnoli per la RepubblicaIl primo ricordo, mentre elimino il suo numero dalla rubrica del cellulare, è legato a un momento di decadenza, condizione umana che non rende più fragili, ma più autentici. Gli avevano cancellato la sua creatura, ilMaurizio Costanzo Show, dai palinsensti, quelli che puoi leggere su Sorrisi e canzoni.
Lo avevano mandato “sul digitale”. Una specie di esilio. Napoleone all’Elba sapeva che sarebbe tornato. Frattanto trasmetteva nel vuoto cosmico, dal teatro Parioli, senza pubblico in sala. Viveva lì dentro, barricato: «Ho paura che se esco mi cambino la serratura». La sua stanza era piena di manufatti firmati Fornasetti e di tartarughe di ogni foggia e materiale. Gli era bastato metterne una sulla scrivania e gliene avevano regalate mille. E sì che considerava l’adulazione una perdita di tempo. Aveva trasformato lo sproposito in collezione. Mangiava lì, rigorosamente in bianco, servito da un cameriere in livrea e guanti, perplesso. Una porta conduceva al bagno dove andava di continuo. Aver continuato a frequentarlo mentre era in relativa disgrazia lo convinse che cercassi in lui qualcosa di diverso dai più. E così era. L’attrazione era la forza narrativa del generale nel suo bunker, dell’uomo che si specchia in una telecamera, esistendo di riflesso. Le amicizie più profonde, e in fondo anche gli amori, sono quelli tra opposti. Riconoscono però l’uno nell’altro, al riparo dall’altrui curiosità, un carattere comune che vale più di 999 differenze. In questo caso: l’irregolarità. Domata o vissuta nel privato, la sua, eppure fremente; e quanto avrebbe voluto farne la sua bandiera. Avrebbe significato rinunciare a molta parte del successo, al 90% delle ragioni per cui da ieri lo ricordano. Che altro c’era? Un mondo.
Dovessi provare con tre indizi che Maurizio Costanzo era un atipico rabdomante del talento e della vita scriverei: uno, al suo show negli Anni Ottanta portò Alessandro Bergonzoni. Due: quando divenne presidente di Mediatrade, la fiction Mediaset, volle come direttore Roberto Pace, che lo scavalcava da ogni lato. Inun’estate di oltre vent’anni fa concepimmo un programma per la “prima serata e mezza” di Canale 5. Doveva introdurlo Costanzo di profilo alla Hitchcock. Seguivano otto telefilm di 45 minuti tratti da racconti di genere fantastico scritti appositamente da Paul Auster, Emmanuel Carrère e Niccolò Ammaniti. Che non si sarebbe mai avuto il via libera era scontato e lo sapevamo. Tre: Roberto Pace lasciò poi la famiglia, il lavoro, le inchieste dei magistrati e sparì. Lo rividi a cena in un ristorante vietnamita a New York: frequentava una scuola di scrittura e viveva con un tedesco. Il successivo, ultimo incontro fu in Thailandia, dove Costanzo gli spediva cinquemila euro al mese mentre lui cercava di morire di eccessi. Quando ci riuscì, ricordammo la sua “vita da film” e scrivemmo un soggetto che nulla ometteva, ma lo riscattava nel finale. È “chiuso a chiave” in un file criptato.
Il dna non mente. L’ulteriore prova del genio laterale di Maurizio Costanzo è suo figlio Saverio, della cui opera cinematografica era fiero.Non a caso, soprattutto del suo film più meravigliosamente difficile: In memoria di me. Chiede il Padre Maestro al protagonista sperduto: «Che vita hai fatto fino ad oggi?». Risponde lui: «Ho vissuto senza rinunciare a niente. Ho amato. Eppure mi sembrava di non progredire mai. Di non poter dare di più. E il cuore ne soffriva. Però sotterravo senza chiedermi troppo. Tanto per il mondo ero un vincente. Non dormivo più per la paura di... di voltarmi indietro e non trovarci niente».
Costanzo ha creato, resuscitato e distrutto carriere altrui, affascinato dal potere di farlo. Nell’angolo nascosto di una trattoria senza fronzoli pranzava con sindaci, ministri, presidenti, produttori, imprenditori. Notava chi si straniva per l’ordinarietà dell’ambiente e gli toglieva un punto. Raccontava strepitosi aneddoti su Mastroianni, Gorbaciov e, soprattutto, Berlusconi. Per questi ultimi saggiava la riservatezza del commensale, andando poi in irresistibile crescendo. Aveva un lato oscuro in grado di eclissare diversi pianeti, ma chi se lo nega è un falsario della propria autobiografia. Dieci anni fa mediai perché concedesse un’intervista a Paolo Sorrentino, che considerò l’articolo più profondo mai pubblicato su di lui. Scrisse, tra l’altro: «Era grande amico di Gassman, di Sordi e di tanti altri che adesso sono morti. Per questa ragione, alle volte, si sente solo. Anche questa è la vecchiaia, ma lui continua a non darle spago». Migliaia di ore di tv e radio, centinaia di rubriche (mica tutto inevitabile), ma una cosa a cui teneva era un film non riuscito che avrebbe voluto intitolareIl graffio nell’anima.
Uno psicologo lo aveva convinto di averlo patito. Era imprevedibile vedere un uomo di quella storia professionale e personale ammetterlo, struggendosi. Il film venne invece intitolato Per sempre.Come nulla è. Ci raccontiamo che dopo la morte restiamo nella memoria degli altri. I più sensibili tra noi sono anche i più spietati: hanno imparato che per sopravvivere bisogna impedirsi di ricordare. Entrano a teatro e, visto che non c’è pubblico, spengono anche la luce sul palco.

Aldo Grasso per il Corriere
Non è facile parlare di Maurizio Costanzo. La prima immagine che viene in mente è come sia riuscito a trasformare la sua tv in un palcoscenico casalingo, in una sintesi di modelli comunicativi in cui si ritrovano la denuncia civile e la chiacchiera futile, l’impegno e l’esibizionismo, il dolore (è l’inventore della tv del dolore) e, giustamente, anche la vacuità del banale. Costanzo ha incarnato un genere, il talk show (all’inizio, nel 1976, con Bontà loro non si chiamava ancora così), e di questo gliene va dato atto, ma ha anche scritto pagine di non esaltante tv (leggere il romanzo Talk show di Luca Doninelli). Nessuno come lui ha saputo intervistare e suscitare la chiacchiera in libertà. In tanti anni ha adottato formule diverse, ognuna delle quali può essere considerata la matrice di molta tv contemporanea.
Doppia immagine
La seconda immagine è che ci sono stati almeno due Costanzo: l’uno, il professionista, di una bravura fuori del comune. Ogni sera Costanzo ha sperimentato rapporti comunicativi con la stessa intensità con cui un prete dice messa. La raccolta dei suoi ospiti vale più di un saggio sociologico sull’Italia degli ultimi sessant’anni. L’altro Costanzo, l’uomo di potere, è più complicato da descrivere. Ai tempi, Giorgio Bocca aveva scritto, magari con enfasi eccessiva, che il suo show era la «fabbrica del consenso», la vera tv di regime. No, forse era soltanto un «format di potere» o, meglio, una formidabile macchina narrativa che produceva storie a basso costo e insieme instaurava una forma di controllo sulla vita delle istituzioni come nessuna altra tras-missione televisiva è mai riuscita a fare.
Tralasciando tutto il resto, veniamo ai due suoi programmi più importanti, Bontà loro e Maurizio Costanzo Show.
Bontà loro, primo programma di questo genere della tv italiana, è firmato e condotto da Costanzo, con la collaborazione di Pierita Adami, la regia di Paolo Gazzara e la benedizione di Angelo Guglielmi. Sono i delicati equilibri che si instaurano – grazie al gioco di sguardi, alle strizzatine d’occhio, alle domande insidiose e impertinenti, alle risposte date e non date – gli espedienti che riescono a tenere desta l’attenzione dello spettatore. Con un budget ridottissimo ed elementi compositivi quanto mai scarni (tre poltroncine color aragosta per gli ospiti e uno sgabello mobile per il conduttore), Costanzo pone un’unica condizione: la diretta. Bontà loro è una novità, anche se riprende il modello dei talk show Usa. Ma a differenza di quelli, da Costanzo si colgono subito il gusto italiano della chiacchiera in pubblico, la voglia di conoscere la gente che conta e, insieme, quella che non ha diritto di parola. È il prototipo di un fenomeno destinato a dilagare e a diventare modello di ogni discorso televisivo: il bisogno di confessarsi.
Maurizio Costanzo Show, (1982). È un ritorno in grande stile quello di Costanzo, conduttore pentito coinvolto nello scandalo della P2. Dopo un periodo in panchina e una momentanea retrocessione nei circuiti minori con A lume di candela, Costanzo si ripresenta dai teleschermi di Mondadori (Retequattro) per riproporre un’ulteriore variazione del suo unico spettacolo, questa volta con un titolo che non lascia spazio a equivoci. Si ispira alle fortunate trasmissioni americane di Johnny Carson e David Letterman e aspira a emulare la longevità dell’Ed Sullivan Show. Abbandonata la cornice spoglia di uno studio, lo spettacolo si sposta nel 1982 al teatro Sistina di Roma e poi al Parioli (con Alberto Silvestri coautore dal 1983) per ribadire la connotazione teatrale dello show; nel 1986 si trasferisce su Canale 5 e nel 1987 si trasforma definitivamente in un appuntamento feriale: una pièce che va in onda ogni giorno, una replica continua, appena variegata da insignificanti ritocchi, omaggi alle mode, a sensibilità mercantili.
Testimonianze
Tessitore indiscusso del talk (in perfetta complicità con il regista Paolo Pietrangeli), Costanzo saltabecca tra gli ospiti più o meno illustri in un chiacchiericcio a volte vivace a volte stanco, scandito dai consigli per gli acquisti e dai contrappunti pianistici di Franco Bracardi in frac variopinti. Il MCS, fedele alla liturgia rituale (presentazione dell’ospite, ingresso, scambio dei convenevoli, conversazione), ha il respiro lento di una vita messa continuamente «in discorso». Con questo programma, Costanzo porta a compimento il percorso iniziato con Bontà loro: la scena televisiva si è trasformata in un capannello catodico, teatro ora della disputa civile, ora del cicaleccio evasivo. Sotto l’abile regia del giornalista sono andati in scena l’impegno civile, le testimonianze importanti, le confessioni dei protagonisti dello spettacolo (memorabili gli interventi di Carmelo Bene), della politica, della vita quotidiana. Considerato una passerella obbligata per giovani attori, il MCS si è confermato un’inesauribile fucina di debuttanti.
Costanzo ha sempre avuto, fatalmente, una visione della tv costanzocentrica: lui era il solo sole attorno a cui ruotavano i pianeti; lui illuminava, gli altri ruotavano. Inevitabilmente, alla fine le sue piccole, umane verità s’intravedevano soltanto negli interstizi, nelle sbrecciature.


Aldo Cazzullo per il CorriereMaurizio Costanzo era ricoverato da circa una settimana alla clinica Paideia di Roma: è stato vigile fino a pochi giorni prima di morire. Il giornalista era sofferente di cuore, disturbo per cui era stato costretto negli anni a numerosi ricoveri, oltre ad aver subito un’operazione a cuore aperto. La camera ardente del conduttore è allestita oggi e domenica presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio, mentre i funerali solenni si svolgeranno lunedì, alle 15, nella Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo, a Roma.
Come Molière, Maurizio Costanzo è morto in scena. O, se si preferisce un’espressione di Renzo Piano, è morto nel cantiere. Senza mai smettere di lavorare; che per lui significava vivere.
Ha fatto un sacco di cose, quasi tutte (anche se non tutte) molto bene. Fu il primo a invitare in televisione i capi del partito comunista. A Bontà loro chiedeva a ogni ospite: «Cosa c’è dietro l’angolo?». Giancarlo Pajetta rispose: «Un altro angolo». Il suo grande rivale Giorgio Amendola, ingelosito, volle essere intervistato pure lui.
Scrisse Una giornata particolare per Scola e Se telefonando per Mina. Lavorò a Paese Sera con Mughini e Dario Argento, firmando Maurice Costance per far credere di essere francese. Inventò un genere, la tv popolare, parlando pochissimo: bastava una sua battuta in un romanesco sminuzzato per far aprire una persona e un mondo. Si iscrisse alla P2, diresse un giornale della Rizzoli piduista, ma a differenza di altri ammise di aver sbagliato. Inventò Vittorio Sgarbi e Maria De Filippi, forse l’uomo e la donna più conosciuti d’Italia. Distrusse Pippo Baudo divenuto improvvidamente direttore di Canale 5; il vero capo di Canale 5 era lui; i rapporti di forza furono presto ristabiliti. Introdusse Giovanni Falcone al grande pubblico. La mafia tentò di ammazzarlo.
Di oltre mezzo secolo di carriera, quello fu il momento più tragico e nello stesso tempo epico. Lui era convinto di essere stato salvato da suo padre, anzi da «papà mio», come diceva in romanesco. Totò Riina sentenziò: «Questo Costanzo mi ha rotto». Cominciarono a pedinarlo, a spedirgli lettere anonime, ma non ci fece caso. Una sera, nascosto tra il pubblico, venne Matteo Messina Denaro, per studiare il teatro Parioli. La bomba esplose la sera del 14 maggio 1993. «Fu un miracolo. Il mio autista mi aveva chiesto un giorno libero, e l’avevo sostituito con un altro, che conosceva meno bene la strada. Esitò al momento di girare in via Fauro, e questo confuse il killer che doveva azionare il detonatore. Sentimmo un botto pazzesco. Tra me e Maria passò un infisso. Tornammo subito a casa. Il telefono stava squillando: era Nicola Mancino, il ministro dell’Interno. Poi arrivarono poliziotti, carabinieri... solo allora realizzai di essere un sopravvissuto. Per fortuna papà mio ci mise una mano sulla testa».
Il padre morì che Maurizio aveva ventidue anni. Il suo grande rimpianto era che non avesse potuto vedere quello che aveva fatto. «Ogni mattina al risveglio penso a papà mio. È come un angelo protettore. Spero tanto di rivedere lui e la mamma». Quindi crede nell’Aldilà? «Ci spero. Credo un po’ anche alla reincarnazione: da secoli siamo sempre gli stessi. Io ad esempio penso di essere stato un monsignore. Ma mi sarebbe piaciuto vivere a Betlemme, e veder arrivare i Re Magi».
Il Costanzo Show all’inizio era settimanale, su Rete 4. Berlusconi comprò tutto con lui dentro. Lo chiamò a Portofino, c’era pure Freccero, e disse: d’ora in poi lo facciamo tutti i giorni. Primi ospiti Eva Robbins, che si chiama in realtà Roberto Coatti – «dissi che era come le carte da gioco: metà uomo, metà donna» – e Paolo Villaggio, che Maurizio raccontava di aver scoperto anni prima: «A Genova mi suggerirono di andare in un teatro di piazza Marsala, dove si esibiva uno strano impiegato. Era Villaggio. Uscimmo a cena e firmammo il contratto su un tovagliolo del ristorante. All’epoca avevo un cabaret a Roma, il Sette per Otto. Fu un trionfo, vennero a vederlo Flaiano ed Ercole Patti. Poi Paolo andò in tv, e nacque Fracchia». Al Costanzo Show cominciarono gli Uno contro tutti. Per Bossi scoppiò una rissa: «Si menarono proprio, leghisti contro gli altri, sotto gli occhi dell’Umberto. Carmelo Bene invece litigò con il pubblico, e si prese gli insulti e gli sputi della prima fila». Alda Merini venne a raccontare gli elettrochoc che aveva subito, disse che l’avevano sfrattata, Costanzo lanciò una sottoscrizione in diretta e le salvò la casa. Una sera Platinette si tolse la parrucca, e rivelò di essere Mauro Coruzzi. Arrivò un ragazzo di Correggio con la chitarra, il pubblico non apprezzò le canzoni, Costanzo disse: questo ha un grande avvenire. Era Ligabue. (Il pubblico dello show era scelto accuratamente tra gli italiani medi, che lui conosceva come nessun altro, infatti sapeva assecondarli e, più di rado, contraddirli). Ogni tanto venivano anche i due giornalisti più importanti del Novecento, Scalfari e Montanelli, che raccontò l’agonia della moglie Colette.
A Montanelli, Costanzo sosteneva di dovere tutto: «Mio zio mi faceva leggere i suoi articoli sulla terza pagina del Corriere. Mi invaghii. Così, a 14 anni, gli scrissi una lettera. Incredibilmente mi rispose. Mi invitò alla redazione romana. Poi nella sua casa di piazza Navona, a pranzo con Carlo Laurenzi: un uomo raffinatissimo, che lo divertiva con i suoi bon mots. Indro mi ha seguito per tutta la vita. Mi fece pure assumere da Afeltra al Giorno». Da cronista intervistò Pier Paolo Pasolini e Curzio Malaparte, che viveva in albergo, circondato dai suoi bassotti, tra cui uno chiamato Curtino. Da allora pure lui ha sempre avuto bassotti.
Pochi mesi dopo la bomba ci fu la discesa in campo di Berlusconi. «Ci chiamò tutti ad Arcore, c’erano anche Mentana e Giuliano Ferrara. Alla fine lo presi da parte e gli dissi: io non ti voterò mai, ma non dirò mai una parola contro di te». A un certo punto Costanzo consigliava contemporaneamente Berlusconi e Rutelli, che erano entrambi candidati a Palazzo Chigi, e conduceva una trasmissione su Mediaset e una sulla Rai, che in teoria erano concorrenti.
Come tutti sanno non era bello, di persona il suo aspetto per dirla tutta era particolarmente sgraziato – la testa enorme quasi senza collo —, eppure era come i cavalli di razza, che brutti non sono mai. Non a caso ha avuto una vita sentimentale da divo di Hollywood, sempre accanto a donne bellissime, e con fidanzate insospettabili dietro le quinte. Il matrimonio giusto fu il quarto. Incontrò Maria De Filippi a Venezia, in un convegno. Lei lo raggiunse a Roma. Monica Vitti la sentì parlare nella stanza a fianco, senza vederla, e disse a Costanzo: «Senti che voce profonda, pare la mia. Dev’essere una donna intelligente...». Insomma, Maria ebbe la benedizione di Monica Vitti. Hanno fatto in tempo a festeggiare le nozze d’argento. Disse che sognava di morire con le mani tra le sue. Gli chiesero: ma lei cosa fa alle donne? Rispose: «Le ascolto».
Andare ospite di Costanzo era un rito. Ti portavano in uno sgabuzzino a bagno d’ombra, dove lui ti riceveva in modo sbrigativo eppure accurato, consegnandoti una tartarughina portafortuna in ceramica – animale totemico, cui in effetti somigliava – e dicendo poche parole il cui senso era: ti ringrazio per essere venuto, ma dovresti essere tu a ringraziare me. Era uomo di straordinaria rapidità mentale. A lungo ha avuto molto potere, anche se come ogni vero potente negava di esserlo: «Mica sono Andreotti. Io al massimo posso lanciare un cantante». Sapeva individuare il talento al volo e non sbagliava quasi mai. Non parlava male quasi mai di nessuno, ma poteva essere feroce. Ognuno di noi gli deve qualcosa; anche solo una serata di svago, o una certa idea del nostro Paese. Molto probabilmente papà suo lo stava aspettando; di sicuro Maria gli ha tenuto la mano.
Giovanni Bianconi per il Corriere
La bomba che scoppiò alle 21.25 di quasi trent’anni fa, il 14 maggio 1993, segnò l’inizio dell’assalto mafioso al continente. Per la prima volta Cosa nostra – che un anno prima aveva fatto saltare in aria Giovanni Falcone, sua moglie Francesca, Paolo Borsellino e otto agenti di scorta – organizzò un attentato fuori dalla Sicilia. E l’obiettivo doveva essere lui, Maurizio Costanzo, il giornalista dello Show televisivo che attaccava gli «uomini d’onore», arrivando a invitare le loro donne a lasciarli. Un attentato senza vittime, ma il messaggio fu subito chiaro: Cosa nostra aveva deciso di allargare il suo raggio d’azione. Non più solo magistrati, investigatori o politici che si mettevano di traverso; adesso toccava anche gli uomini di spettacolo che facevano informazione accusando la mafia davanti a milioni di italiani. Bersagli scelti con cura, ovunque nel Paese.
«Si parlò di una trasmissione che fece Costanzo dove si parlava dei ricoveri facili all’ospedale, e che lui in quella trasmissione disse che dovevano effettivamente avere tutti tumori, o dovevano morire tutti di cancro gli uomini d’onore. Questo fu una causa scatenante», rivelò il pentito Vincenzo Sinacori, uno che fece parte del commando spedito a Roma da Totò Riina in persona, a febbraio del 1992, per trovare il modo di uccidere Falcone o l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli; e poi, appunto, Maurizio Costanzo.
Dovevano essere ammazzati a colpi di pistola o di mitragliette, un attentato dinamitardo nella capitale avrebbe potuto provocare conseguenze troppo gravi in quel momento. E così un gruppo di giovani killer di mafia – guidati da Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro – si ritrovò intorno alla Fontana di Trevi e cominciò una decina di giorni di perlustrazioni tra le vie del centro e il teatro Parioli, per incontrare il magistrato che all’epoca lavorava al ministero della Giustizia, o il conduttore del Costanzo Show. Ma non cavarono un ragno dal buco; Falcone non lo videro mai, Costanzo invece sì, entrarono anche a teatro per assistere allo spettacolo e seguirne le mosse all’uscita, ma si convinsero che sparargli sarebbe stato complicato, era più sicura una bomba. Per quella però serviva l’autorizzazione di Riina.
Messina Denaro spedì Sinacori dal «capo dei capi», che invece di dare il via libera decise di richiamare il suo «gruppo di fuoco»: «Tornate indietro, perché abbiamo trovato cose più grosse giù».
Le perlustrazioni
L’anno prima Graviano e Messina Denaro erano entrati a teatro
per studiare il bersaglio
Le «cose più grosse» erano le stragi di Capaci e via D’Amelio, più altri attentati non riusciti come quello al giudice Piero Grasso. Poi a gennaio ‘93 Riina fu arrestato, e suo cognato Leoluca Bagarella continuò sulla strada delle bombe, scegliendo di piazzarle anche lungo la penisola. E la prima fu per Costanzo: quasi 100 chili di tritolo e nitroglicerina sistemati nel bagagliaio di una Fiat Uno rubata la sera dell’11 maggio ‘93. E parcheggiata in via Ruggero Fauro – la strada dei Parioli che abitualmente il giornalista percorreva all’uscita dello spettacolo per tornare a casa – già il 13 maggio. Ma quella sera il telecomando non fece esplodere l’ordigno. L’indomani i mafiosi (tutti della cosca di Brancaccio, quella dei Graviano, con Salvatore Benigno nel ruolo di esecutore materiale) andarono a riparare il guasto e la sera del 14 la bomba scoppiò. Ma Costanzo si salvò perché aveva cambiato macchina; non la solita Alfa 164 attesa dal commando, ma una Mercedes.
«Benigno ha perso un po’ di tempo nel senso di: “è lui? Non è lui?”... Allora, ha schiacciato il bottone diciamo con qualche secondo diciamo, o millesimo di secondo, in ritardo. Perché si aspettava una 164», racconterà un altro pentito. Al momento dell’esplosione le macchine di Costanzo e della scorta erano appena passate, ma furono ugualmente coinvolte dall’onda d’urto, e danneggiate: Costanzo e Maria De Filippi che era con lui rimasero illesi, l’autista della Mercedes riportò qualche lieve ferita e anche le guardie del corpo a bordo della seconda auto se la cavarono con poco.
Due settimane più tardi Cosa nostra colpirà ancora a Firenze, in via dei Georgofili (5 morti e 48 feriti), e il 27 luglio a Roma e Milano (4 morti e 12 feriti). Un programma di morte che doveva proseguire con l’attentato allo stadio Olimpico di Roma a gennaio ‘94, fallito e mai più ritentato dopo l’arresto dei fratelli Graviano a Milano, pochi giorni dopo.
Una storia raccontata tante volte da Costanzo, rimasto per sempre segnato da quella bomba e dalle trasmissioni che l’hanno provocata: a cominciare da quella in cui ospitò Giovanni Falcone all’indomani dell’omicidio dell’imprenditore antiracket Libero Grassi, assassinato a Palermo il 29 agosto 1991, quando bruciò una maglietta con la scritta «mafia made in Italy» in diretta tv. Con il publico che applaudiva e Falcone che guardava a braccia conserte.

Giovanna Cavalli per il Corriere (intervista a Sgarbi)
Roma «Ero convinto che Maurizio fosse immortale e in un certo senso lo è, perché è ancora qui tra noi, con noi. Anzi Costanzo siamo noi, lui vive in noi». Vittorio Sgarbi lo ha saputo in diretta (ospite a L’aria che tira su La7) e di getto ha commentato: «Era nostro padre, è morto nostro padre».
Nostro?
«Sì, il mio, di Lilli Gruber, di Nicola Porro, di Massimo Giletti, di Paolo Del Debbio, di Corrado Formigli, di Giovanni Floris, di tutti noi che siamo il suo lascito testamentario, lui che un delfino non l’ha mai scelto, proprio come non lo ha voluto Berlusconi, che quando se ne andrà non lascerà nessuno uguale a lui. Maurizio invece ha tanti figli di un modello di tv, un mix irripetibile di cronaca, teatro, cinema in cui l’imprevisto è la chiave del successo».
Ricorda il vostro primo incontro?
«Mi chiamò nel 1987, come critico d’arte, litigammo subito, perché aveva invitato un tizio noiosissimo. Tornai due anni dopo e feci filotto, uno due e tre: la lite con la professoressa a cui diedi della str…, gli insulti alle panchine di Sottsass e la dichiarazione di odio per Federico Zeri quando dissi che lo volevo morto. Maurizio intuì una verità: che l’imprevisto in tv è come un incidente stradale, non resisti e ti fermi a guardare. Lui è stato come un meteorite caduto sulla televisione italiana. Di Mike Bongiorno non è rimasto niente, forse lo stesso accadrà con Pippo Baudo, Costanzo invece sarà eterno, anzi lo è già, è ancora qui».
Avete mai litigato? Costanzo non la rimproverava mai per le sue celebri sfuriate?
«Sì, quella prima volta nel 1987. Mi disse: se non le va bene come conduco il programma, lo conduca lei. Ma niente di più. Gli piacevano i miei scatti, il fatto che non recitassi una parte in commedia. Mi ha dato un palco, come a un cantante. Il Maurizio Costanzo Show era la Scala della tv».
Gli voleva bene, vero?
«Sì, certo. E anche lui mi ha amato nella vita personale, non solo in quella professionale. Ci sentivamo una volta al mese, ma con Maurizio non esistevano cene, cocktail o vacanze. Bruno Vespa vado a trovarlo nella masseria in Puglia, Maurizio non è mai andato in masseria o in villeggiatura. La sua vita vera era quella in tv, non l’altra. I primi tempi eravamo solo io e Maria De Filippi. Finita la puntata io andavo a casa, lei invece restava lì, questa era l’unica differenza».
Renato Franco per il Corriere
Matrimonialista seriale ma anche battutista formidabile: «Dopo tre matrimoni, il quarto o viene bene oppure smetti». Buona l’ultima per Maurizio Costanzo che ha avuto una vita a due piazze da attore di Hollywood.
In principio fua Lori Sammartino (più grande di 14 anni, all’epoca lui ne aveva 25): «Mi affascinava, era una grande fotografa. Ci sposammo in chiesa, nel 1963, a Isola Farnese. C’era Raimondo Vianello, di cui avevo raccontato il matrimonio su Grazia pochi mesi prima: un buon colpo, ero l’unico giornalista ammesso, eravamo amici. L’unione con Lori durò pochissimo: mi innamorai di una segretaria della Mondadori», ricordava 20 anni fa in un’intervista a Barbara Palombelli proprio sul Corriere.
Passano 10 anni. Nel 1973 nascono affinità elettive e giornalistiche con Flaminia Morandi dalla quale ha avuto i figli Camilla (che lavora come sceneggiatrice) e Saverio (il regista). «Era bellissima, sposata con il bellissimo Alberto Michelini. Non so come, lo lasciò per me. Ci unimmo in Comune, testimone Marcello Marchesi, con cui lavoravo in quegli anni. Le sarò grato per tutta la vita: abbiamo un ottimo rapporto. Le cose finirono per via di una mia storia segreta e anche forse per l’esplosione di Bontà loro, un successo che ci travolse».
Reduce da una relazione burrascosa con Simona Izzo («era molto gelosa, non mi faceva dormire, adorava il dibattito sotto le lenzuola, cercava la rissa notturna»), Costanzo sposò nel 1989 Marta Flavi, ma le nozze durarono poco più di un anno e finirono malissimo. «Avevo iniziato la storia con Maria, stavo parlando con lei dal mio ufficio, a un certo punto una terza voce si infila e dice: “Maurizio, sono Marta”. Non negai, ma passai una notte complicata. Finì male».
Ma finì anche bene, perché Maria era quella Maria. De Filippi. Lui fu colpito dalla sua intelligenza: «Le diedi la possibilità di lavorare con me a Roma e iniziò a fare questo lavoro». Lei rimase coinvolta e spiazzata: «Ho visto un uomo intelligente che mi capiva ed era profondamente buono, mi ha conquistato. Non è stato facile spiegarlo ai miei genitori ma la mia non era una forma di ribellione». Anzi, era una decisione solida, formalizzata nel 1995 con il matrimonio celebrato dall’allora sindaco Francesco Rutelli.
Quattro donne, quattro matrimoni, quattro persone che hanno lavorato con lui. Non è un caso. «Lo spettacolo è la mia vita». Lo è stato fino all’ultimo.
Maria Volpe per il Corriere (intervista a Marta Flavi)
Marta Flavi è stata la terza moglie di Maurizio Costanzo. Dopo di lei, il grande amore, la quarta moglie Maria De Filippi. Il giornalista e la conduttrice di «Agenzia matrimoniale» si sono sposati nel 1989: un matrimonio durato solo un anno, giunto dopo tre anni di fidanzamento, a cui è seguita una separazione turbolenta.
Signora Flavi, Maurizio Costanzo ci ha lasciato
«Sono sconvolta da questa notizia, mi dispiace tanto. Maurizio Costanzo è stato un uomo importante nella mia vita».
Ci dà un suo ricordo di Maurizio?
«È stato un uomo importante, ci siamo amati, anche contro tanti pregiudizi. Io ero giovane e bella».
Ma non è finita bene
«È vero. Ci siamo scannati, ma il tempo calma tutto».
Da ieri mattina c’è un coro unanime su Maurizio: grande maestro di televisione. Anche per lei è stato così?
«Certamente: ho sposato Maurizio quando era la Televisione. Un giorno a Milano, a cena, mi presentò tutti insieme: Sandra Mondaini, Raimondo Vianello, Corrado con la moglie. Stavo per svenire».
Ma cosa le ha insegnato davvero?
«Ad ascoltare. Tutti ormai parlano sopra l’ospite e spesso sono i conduttori a dare le risposte alle loro stesse domande. Questo Maurizio non lo avrebbe mai fatto».
Lei guardava il Costanzo show?
«Sì spesso. Tutti siamo cresciuti con il suo talk show. Lui ha portato in Italia quello che facevano gli americani».
Come lo ha conosciuto?
«Tornata dall’America gli proposi di fare un programma sugli animali domestici. Lui mi disse: “Dopo il cane e il gatto di che parliamo?”. Era spiritoso».
Cosa la conquistò?
«La sua parola. Lui ti conquistava parlando».
La strada
Dopo la separazione abbiamo avuto una vita bella e ognuno è andato per la sua strada
Come siete arrivati al matrimonio?
«Lui mi parlava spesso dei suoi matrimoni precedenti e aveva appena terminato la storia con Simona Izzo. Io gli dissi che la nostra unione doveva essere ufficiale. Lui disse: “Va bene, mi separo ufficialmente da Flaminia (la sua seconda moglie, ndr) e poi ti sposo”. È stato di parola. Dopo tre anni mi sposò».
Che uomo e marito è stato?
«Un uomo molto intelligente e divertente. Chiacchierare con lui era bellissimo. Da 15 anni di lui ricordo solo cose belle.Voglio solo ricordare le cose belle di uomo generoso e affascinante. Le cose meno belle non le ricordo più».
Dopo solo un anno di matrimonio è cominciata una separazione tumultuosa
«Quattro anni di separazione lunga e dolorosa. Poi entrambi abbiamo trovato altre strade. Non potevamo andare avanti, perché eravamo troppo diversi».
In che modo diversi?
«Lui concepiva la vita come lavoro, la sua vita era il lavoro. Per me non è così, non sono ambiziosa e ho bisogno di altre cose».
Rimpianti?
«No, è andata bene così. Sono stata molto felice, poi non più. Dopo la nostra unione, entrambi abbiamo avuto una vita bella e ognuno è andato per la sua strada con grande soddisfazione».
Cosa resta ora?
«Ho cancellato le tante cose brutte e in questi ultimi anni ho avuto per lui una forma di affetto. Ha fatto parte della mia vita. Ormai c’era serenità da parte di entrambi».
Con Maria De Filippi ha mai avuto rapporti?
«No, nessuno. Mi dispiace tanto per lei e per i figli. La morte è orribile».
Andrà al funerale?
«Non andrò al funerale, sarebbe poco elegante».
Repubblica
L’aveva definito “un grosso errore”, aggiungendo che gli errori fanno bene e fanno crescere. «Non credo a chi dice di non averne mai fatti, che fesseria… Però c’è anche chi, di grossi errori, ne fa due o tre. Io uno: e lo ammetto». La scoperta che Maurizio Costanzo facesse parte della P2, tessera numero 1819 (tre numeri dopo Berlusconi, 1816) fu un colpo durissimo per la sua immagine. La lista fu scoperta il 17 marzo del 1981, Villa Wanda a Castiglion Fibocchi, nell’Aretino, custodiva quei 982 nomi (di ministri, parlamentari, generali, magistrati, imprenditori, dirigenti dei servizi segreti e giornalisti) tra i quali c’era anche il suo, data di iscrizione 26 gennaio 1978.
In principio smentì. Raccontò di essere stato iscritto “a sua insaputa”. Poi decise di confessare e lo fece con una intervista a Giampaolo Pansa su Repubblica del 5 giugno 1981. «Finora ho negato perché avevo paura di quanto si legge sui giornali», disse. Aggiungendo. «Sono entrato per ingenuità e perambizione in un gruppo di farabutti. Vorrei chiudere gli occhi e tornare al periodo che precedette il mio incontro con Gelli». Poi l’ammissione, relativa a una sua intervista a Gelli: «Sì, la feci perché qualcuno me lo chiese. Nei corridoi di via Solferino mi dicevano che avevo intervistato uno dei padroni del Corriere. Io non lo pensavo, ancora adesso non ci credo». Nel dialogo con Pansa, Costanzo ammise più volte il suo rammarico per la scelta di iscriversi alla Loggia. «Era un gruppo di farabutti, di inconsapevoli e di cretini. Sì, cretini come me. Ho fatto uno sbaglio davvero cretino».
Ricorderà: «Sono stato felice di aver telefonato a Eugenio Scalfari chiedendogli di intervistarmi su Repubblica, e lì mi sono liberato. Sono stato ampiamente insultato da altri della lista per aver fatto l’intervista, ma non me ne frega niente».

Silvia Fumarola per la repubblica (intervista a Pippo Baudo)
Cinque anni fa si erano trovati faccia a faccia, perL’intervista, il programma in cui Maurizio Costanzo su Canale 5, faceva confessare all’ospite l’inconfessabile: tutto, ma proprio tutto. E Pippo Baudo aveva parlato di carriera, vita, amori, rimpianti. Due giganti della tv a confronto: stili diversissimi, sornione Maurizio, più diretto Pippo. Sullo schermo alle loro spalle i volti di Corrado, Mike Bongiorno, Enzo Tortora, Raimondo Vianello. Amici e colleghi che, con loro, avevano fatto la storia della televisione. Costanzo, con la sua ironia formidabile, aveva sottolineato la circostanza: «Hai notato sì, che siamo rimasti vivi solo noi?». E aveva fatto le corna.
Baudo, le aveva fatte anche lei?
(Ride) «Maurizio era spiritoso, molto.
Coglieva il lato buffo della vita, in tutte le situazioni. Io serio serio non l’ho mai visto».
Sa che a un certo punto erano girate voci su una vostra lite? È mai avvenuta?
«Una cavolata inventata non so da chi, mi ricordo che ci siamo puretelefonati. “Ma ti pare che possiamo essere nemici?”. E ci siamo fatti grandi risate».
Ma com’è stato il rapporto negli anni?
«È stato sempre cordiale, amichevole, non abbiamo mai avuto scontri. Quando ci vedevamo era un piacere raccontarci le cose, ci guardavamo negli occhi e ci riconoscevamo. Eravamo davvero rimasti io e lui».
Cosa lo distingueva dagli altri?
«Era un giornalista che amava lo spettacolo e quindi le sue domande non finivano solo nel greto giornalistico stretto, diventavano occasione per ampliare l’argomento e farne oggetto di spettacolo: andava a parare sempre lì. E poi aveva quest’ironia...».
Che confinava con un certo cinismo romano, non si stupiva di niente.
«Quella è la romanità autentica, era
figlio ideale di Aldo Fabrizi, con quella voglia di smitizzare le cose».
Faceva dire agli ospiti tutto: anche lei, nella famosa intervista del 2018, non si risparmiò.
«Era abilissimo. Ero andato lì con l’idea di non raccontare le cose più private, lui aveva una capacità speciale per tirarti fuori i ricordi.
Intanto usava un linguaggio facile ed era sempre molto calmo. Ti aprivi senza accorgertene e cadevano i freni inibitori. Devi essere bravo per farlo ela tv non mente».
Era davvero curioso di chi aveva davanti?
«Sempre. Era un grandissimo osservatore, si comportava come fosse uno spettatore dall’altra parte del video. Conosceva i gusti di chi guarda la televisione, la gente seduta sul divano».
Ha scritto per il cinema, il teatro, anche una canzone di successo come “Se telefonando”.
«Era pieno di interessi, ha pure
recitato le sitcom. E io ho fatto una commedia sua in teatro, L’ora della fantasia,con Sandra Mondaini. Una sua libera traduzione dal testo di Anna Bonacci. Come commediografo era bravissimo».
Gli vogliamo trovare un difetto?
«Secondo me la pigrizia. Un po’ pigro era, ma il lavoro era la sua passione».
Da quanti anni vi conoscevate?
«Una vita. Pensi che è la prima persona che mi ha intervistato a Roma nel 1960, lavorava per Grazia».
E com’era all’epoca?
«Mi fece una buona impressione. Era gentile, sarcastico anche allora ma mai cattivo. Faceva piacere anche discutere con lui, era un uomo intelligente».
Ha rivoluzionato la tv?
«Ma certo. Pensi aBontà loro,voluto da Angelo Guglielmi nel 1976.
Stravolgeva tutta la liturgia. Lo studio senza pubblico, una finestra che si apriva, tre poltrone e la gente a casa che aspettava le sue interviste intelligenti. Il primo talk show».
Si metteva sempre in gioco, deve anche a questo il suo successo?
«Innanzitutto era diverso, anche fisicamente. I personaggi televisivi sono caratterizzati: io spilungone, lui con un fisico in cui si specchiavano in tanti. Anche il fisico, su cui ironizzava per primo, facendo battute, era la sua forza, c’era un po’ di Fabrizi. Insieme bonomia e cinismo romano».
Al “Maurizio Costanzo show” sono sfilati tutti i politici.
«Ha raccontato il Paese e su quel palcoscenico i politici ci sono sempre andati, per forza. Con la sua arguzia equel modo di scavare, sapeva far uscire fuori il personaggio senza mai aggredirlo ma neanche accarezzarlo.
Un’arte. Essere intervistati da lui significava avere la patente».
Costanzo ha dichiarato sempre di non aver mai votato per Silvio Berlusconi. Le che cosa ne pensa?
«Aveva le sue idee sicuramente ma era apolitico, perché voleva essere di tutti. Non doveva votarsi a un partito.
Io ci credo che non abbia mai votato per Berlusconi, lo sconsigliò pure di scendere in campo».
E il rapporto con Maria De Filippi?
«Confesso che è la cosa che mi ha meravigliato di più. Non immaginavo che sarebbe stato un legame durevole e invece è diventato forte, profondo, fondamentale. Maurizio sapeva scoprire il talento negli altri, e anche lei è stata una sua scoperta».
Vede eredi di Costanzo in giro?
«Categoricamente, no. Non ci sono».

Massimilian Panarari per La StampaIl talk show prima che imparassimo a chiamarlo così ha avuto un creatore indiscusso. Maurizio Costanzo ne è stato il demiurgo nazionale. Lo ha inventato sotto le vesti di «Bontà loro», e in seguito ne ha brevettato la formula-format, salutata da un successo via via crescente, stabilendone stilemi e variazioni interne con il programma che da lui ha tratto il nome e il titolo, il famosissimo e intramontabile Maurizio Costanzo show.
È stato un talento comunicativo molto versatile, che ha esordito con la stampa cartacea (fare il giornalista rappresentava la sua aspirazione giovanile) tra il quotidiano Paese Sera, il settimanale Grazia e la direzione de La Domenica del Corriere. Ha fatto l’autore radiofonico ed è stato pure il coinventore del personaggio di Fracchia. E a lui si deve la copaternità di un tentativo originale nel panorama della stampa italiana, la direzione nel’79 de L’Occhio, ovvero un esperimento di quotidiano popolare in un Paese quale il nostro che, per molteplici ragioni, è rimasto perennemente estraneo a quel paradigma giornalistico che ha riscosso tanto successo in molte altre nazioni. Ma la sua impronta più rilevante, naturalmente, l’ha lasciata in virtù del suo ruolo storico di «comunicatore della tv», ovvero di inventore-utilizzatore della logica del piccolo schermo quale medium attraverso cui riscrivere la grammatica comunicativa e conversazionale generale del vasto pubblico che lo seguiva con assiduità.
Il «Codice Costanzo» è stato uno dei capitoli e degli snodi fondamentali della neotelevisione italiana, per usare la nota categoria di Umberto Eco, ispirato – come da precetti della cultura postmoderna della cui applicazione al tubo catodico il conduttore-autore ha giustappunto identificato un pioniere – alla mescolanza «alto-basso» e all’ibridazione dei generi. Con quell’aria sorniona e ammiccante (connotato antropologico di una certa romanità), e quel look rassicurante – e immutabile – imperniato sul panciotto e su una camicia azzurra senza cravatta, è divenuto la quintessenza di una «forza tranquilla» televisiva. In grado, pertanto, di entrare nelle case di tutti avvalendosi di un linguaggio familiare, ma che – attraverso quella che si potrebbe etichettare come la «disciplina della chiacchiera» – faceva della contaminazione la propria cifra distintiva e disseminava il discorso di spunti tutt’altro che scontati e temi della vita pubblica. Era proprio la disinvolta «chiacchiera tra amici» (che, nell’arco di un quarantennio di programma, ha visto susseguirsi svariate decine di migliaia di interviste) a fare scattare il meccanismo mimetico e dell’identificazione tra il costanziano salotto mediatico e quello domestico e casalingo dove era collocato il televisore. Quella chiacchiera che, difatti, era frutto solo all’apparenza di casualità e divagazione e, al contrario, come tutto ciò che sembra «naturale» dentro il piccolo schermo, costituiva l’esito di una lavorazione e di una scrittura piuttosto intense.
Tra il 1976 e il 1978 Bontà loro in onda sulla Rai – espressione che risuonava come un tributo a coloro che facevano la gentilezza di rendersi disponibili all’intervista in trasmissione – aveva consentito il rodaggio dello «show di chiacchiere di varia umanità», via via perfezionato, fino all’approdo al suo omonimo programma-ammiraglia trasmesso da Fininvest a partire dal 1982. E in questo periplo televisivo, come nelle varie altre tappe del suo viaggio autoriale e di conduttore – Acquario, Grand’Italia, Fascination e Buona domenica – si colgono con nettezza i tratti e gli elementi costitutivi di quello che possiamo chiamare il “mauriziocostanzismo”, da cui traspaiono anche una passione per il potere e quella dimensione self-centered, che la televisione – in Italia vero potere fortissimo e autoriferito – compendia infatti in maniera esemplare. E, dunque, nel «mauriziocostanzismo» si ritrovano la circumnavigazione attorno alla sfera privata e intima dell’ospite, che viene invitato a mettersi a nudo e a una sorta di confessione per scoprire – riprendendo uno dei suoi slogan più conosciuti – «cosa c’è dietro l’angolo». E, in materia, rimane agli annali la replica di Giancarlo Pajetta – «un altro angolo» –, la migliore risposta mai ricevuta, a insindacabile giudizio dello stesso conduttore-intervistatore. Ancora, il gusto, molto italico, per la conversazione (per l’appunto la chiacchiera), che spazia in lungo e in largo, e senza soluzione di continuità, tenendo insieme argomenti e argomentazioni differenti, secondo uno schema di orizzontalizzazione che nell’età postmoderna ha trovato la propria celebrazione assoluta. Insomma, se il giornalismo popolare cartaceo, per la cui diffusione Costanzo si era adoperato, non ha colto i risultati sperati, per contro i suoi format hanno imposto una televisione e informazione pop decisamente vincenti, e capaci di fare scuola. Uno «spettacolo di parola» che ha fatto da palestra e luogo di scouting di talenti e personaggi tv, e in cui hanno trovato spazio eventi mediali unici e dirompenti come la maratona-staffetta Rai-Fininvest contro la mafia condotta insieme a Michele Santoro, che ha spianato la strada al salto nel talk show cosiddetto «di seconda generazione» (e nella quale si intravede anche la relazione di amicizia e stima che legava Costanzo a Giovanni Falcone). Se oggi l’informazione è fatta anche di personal branding, a precorrerla è stata sicuramente pure la personalizzazione ante litteram costruita intorno a sé da Costanzo, al punto da trasformare il giornalista in un testimonial pubblicitario («Buona camicia a tutti»...), un ulteriore aspetto che lo ha reso un’icona pop. E gli ha dato la patente di legittimità per sviluppare una sorta di psicanalisi del Paese attraverso uomini pubblici e gente (più o meno) comune che, sedendosi sul divano o in poltrona al Teatro Parioli da cui trasmetteva, si sdraiava di fatto sul lettino spettacolarizzato e «in trasparenza» dell’analista (o, se si preferisce, del primo counselor) televisivo. —
Simonetta Sciandivasci per La StampaTanto era truccata quanto era sincera, Platinette, alla fine degli Anni 90, quando si sedeva sul palco del Maurizio Costanzo Show, e parlava di tutto, meno che di sè, meno che di Mauro Coruzzi. Di Platinette si dice, come di molti altri, che Costanzo l’abbia inventata, che è vero, ma nel senso profondo dell’invenzione, che è il trovare. Lui la trovò e diede spazio e libertà prima alla maschera e poi all’uomo che c’era sotto, che dentro ci si accomodava e a volte ci si nascondeva, senza mai sparire.
Coruzzi, cosa deve a Costanzo?
«Quello che si deve a un padre. Ha visto e capito di me cose che nemmeno io sapevo: il fatto che dietro la maschera ci fosse tanto altro e che quella maschera, a un certo punto, andasse tolta».
Quando?
«Mi disse che mi vedeva sofferente in quei panni, ci pensai su. E non era vero: stavo comodissimo, la mia identità reale era celata, facevo il mio lavoro di provocatore: con le maschere addosso non puoi dire quello che ti pare, ma quello che per gli altri è proibito».
E poi?
«Ma una domenica pomeriggio ci mettemmo a provare un’altra parte: ero in abiti incivili, ero cioè vestito da uomo, e da uomo parlavo, mettendomi a nudo. E allora capii di essere pronto. Non molto tempo dopo mi disse che avrei dovuto scrivere le mie memorie: “Non so quanto vivrà ancora, visto come si tratta”. Lo feci. Quando lo lesse, mi disse: “Come al solito non ha risparmiato nessuno, nemmeno se stesso"».
Vi davate del lei?
«Certo. Non eravamo alla pari. Lui era inarrivabile».
Perché?
«Sapeva mescolare l’alto col basso, il cotto col crudo.Un giorno mi fece sedere sul palco accanto a Dario Fo. Una travestita della Bassa padana grossa come un armadio a sei ante con un Premio Nobel. Sapeva godere di tutto senza rinunciare a niente ed è così che ha fatto la televisione: mettendo insieme elementi che per chiunque altro in qualsiasi altro programma sarebbero risultati fuori luogo, inavvicinabili».
Lo ha mai odiato?
«Era impossibile odiarlo. Ma la volta che mi fece sedere su una sedia di plastica per i vent’anni del Costanzo Show e la sedia si ruppe e io precipitai sulle sorelle Kessler, quasi ammazzandone uno, per qualche istante, sì:lo odiai.
E lui, invece, cosa odiava?
«La sua dipendenza dal cibo. Come me. Abbiamo mangiato insieme moltissimi brodini, ogni tanto ci piaceva far finta di essere sani». —

Paolo giordano per il giornaleGli bastava una battuta. Fulminante, spesso in romano, talvolta irriverente. Maurizio Costanzo, che se ne è andato ieri a 84 anni in una clinica romana, era il pittore delle interviste, le disegnava d’acchito, fiutando l’umore dell’intervistato e ascoltando il rumore del pubblico, la pancia del paese. Aveva imparato, sempre che si possa imparare un talento così, nel 1956 nella redazione di Paese Sera, lui diciottenne romano fornito solo di diploma da geometra e di curiosità indomabile. Non aveva barriere, Maurizio Costanzo, e nell’Italia del boom era il passaporto migliore per volare alto. Passa al Corriere Mercantile, intervista Totò per Tv Sorrisi Canzoni, scrive un programma radio per Nunzio Filogamo, incontra, conosce e si fa conoscere, scrive addirittura il testo (con Ghigo De Chiara) di Se telefonando per le musiche e l’arrangiamento di Ennio Morricone.
Aveva capito che per fare (bene) il giornalista devi incontrare, vedere, annusare l’umore del pubblico. Non a caso nel 1967 conobbe Paolo Villaggio, lo spronò a debuttare in un cabaret romano e poi inventò con lui il personaggio Fracchia, antesignano di Fantozzi, maschere distantissime dal Costanzo battagliero e spigoloso ma fotografie eterne delle paure umane nel senso di uomo.
Durante gli anni Settanta, sempre a cavallo tra radio e tv e vita, questo uomo senza età, praticamente un format con i baffi (per parafrasare lo slogan di uno suo famoso spot per una marca di camicie) pensa, metabolizza e crea l’idea che lo consegna all’eternità, ossia l’idea di talk show che deriva da un’intuizione di Luciano Rispoli ma che è stata davvero sublimata da Bontà loro (1976/78), Acquario e Grand’Italia. Poi la consacrazione. Il Maurizio Costanzo Show debutta su Rete4 a settembre 1982 e, con qualche interruzione, è andato in onda fino all’autunno scorso, quarant’anni, il talk show più longevo della tv italiana, oltre trentamila ospiti, interviste memorabili, interviste che, attraverso il memorabile «Uno contro tutti», hanno cambiato la politica e pure il costume di un’Italia che lo incorona come il salotto più influente del nostro paese.
Per tanti anni il Maurizio Costanzo Show è diventato il «laboratorio Italia».
Tutto passava da lì, o addirittura nasceva lì, e tutti lo seguivano. Sul palco del Teatro Parioli sono arrivati decine di ospiti sconosciuti che poi sono diventati opinion leader della vita pubblica. Da Sgarbi a Mughini, da Platinette a Iacchetti a Ricky Memphis ad Alessandro Bergonzoni. Memorabili i passaggi dei protagonisti politici, da Massimo D’Alema a Silvio Berlusconi che aveva saputo togliere Costanzo dall’orbita Rai e che ha sempre garantito, quasi legittimandosi, la massima libertà politica a questo giornalista d’assalto ma pure di chiacchiera, un maestro del cambiamento di fronte.
Come ha scritto Gian Paolo Caprettini, era un maestro delle «interviste interruttive», ossia riusciva a «far dire, a far seguitare la conversazione e il ragionare, inframmezzandosi al discorso altrui e nello stesso tempo rendendolo possibile». Con lui l’intervista era intrattenimento ma pure inchiesta, fotografia sociale ma pure cabaret, divulgazione ma anche recensione.
Era partito con il Maurizio Costanzo Show l’anno dopo la scoperta della sua iscrizione alla loggia massonica P2 di Licio Gelli che dopo anni definì «un gruppo di farabutti e cretini come me». Fu lo squarcio più drammatico e misterioso della sua carriera. Lasciò la direzione del quotidiano tabloid L’Occhio e iniziò un’altra fase. Era così apolitico da diventare politico, faceva opinione dicendo raramente la propria, era insomma un punto di riferimento così importante che anche la mafia lo prese nel mirino. «Non esitò a schierarsi con coraggio contro la criminalità mafiosa», ha detto ieri il presidente Mattarella. Amico del giudice Falcone, dopo l’assassinio di Libero Grassi organizzò una «maratona Rai Fininvest» con Michele Santoro. La mafia ringraziò con una Fiat Uno imbottita da 90 kg di tritolo che esplose in via Fauro a Roma, poco distante dal Parioli. Di fianco a lui, in auto, Maria De Filippi, la sua quarta moglie, quella definitiva e senza dubbio quella che l’ha amato di più, la donna che aveva sempre atteso: «Vorrei morire con lei che mi stringe la mano» ha detto poco tempo fa. Lei lo ha fatto idealmente e praticamente per oltre vent’anni, caso rarissimo di sintonia e sinergia, e chissà quanto dolore oggi per Maria e per il loro figlio adottivo Gabriele.
Ora Costanzo entra nel Pantheon di chi ha creato una forma nuova di tv, da Mike a Corrado, e vanta più imitazioni della Settimana Enigmistica. Nessuno per decenni ha immaginato un’Italia senza Maurizio Costanzo o senza quel modo garbato ma impertinente di raccontare la vita e da oggi ci sarà un prima e un dopo, un AC e un DC, un ante Costanzo e un dopo Costanzo. È stato uno spartiacque dell’informazione, oltre che un recettore di invidia e malelingue, e ha cristallizzato la forma perfetta di intervista, quella fatta da chi è informato dei fatti ma ha anche voglia di informare tutti, non solo i propri colleghi o referenti. Anche in questo resterà un maestro (al momento con pochi discepoli).

Mattia Marzi per il MessaggeroDopo tre matrimoni, il quarto o viene bene oppure smetti», scherzava lui a proposito della sua movimentata vita sentimentale. Era il 1995 quando Maurizio Costanzo sposò Maria De Filippi: fu l’allora sindaco Francesco Rutelli a officiare in Campidoglio il matrimonio, il quarto del popolare conduttore. A dividere la coppia, ventitré anni di differenza.
SCHEMI
D’altronde Costanzo già nel ’63 aveva dimostrato di non badare a schemi e pregiudizi, quando sposò la fotoreporter Lori Sammartino, più grande di lui di quattordici anni. Nel ’73 aveva portato all’altare la giornalista Flaminia Morandi, dalla quale aveva avuto due figli, Camilla (45 anni, oggi sceneggiatrice) e Saverio (42, regista). Nel 1989 il terzo “sì”, quello con Marta Flavi. Il matrimonio durava da un anno, quando nel ’90 il giornalista incontrò Maria De Filippi. Lei aveva 29 anni, lavorava a Univideo e andò a Venezia per un dibattito: fu lì che conobbe Costanzo, che ne aveva invece 52. Colpito dalla professionalità, le chiese se volesse lavorare per lui. All’inizio nessuno sapeva. Poi, come confessò Maria a Mara Venier a Domenica In, Flavi – che all’epoca conduceva su Canale 5 Agenzia matrimoniale – li scoprì: «C’era il duplex. Io stavo a casa mia e stavamo al telefono, lui a casa con lei che alzò la cornetta».
SCETTICO
Flavi, che ieri ha ricordato l’ex marito sui social con una foto del loro matrimonio, nel 2020 raccontò: «Ringrazio Maria per avermelo portato via». Il più scettico sulla relazione era il signor Giovanni De Filippi, che guardava con sospetto a un uomo più anziano della figlia e con una vita sentimentale un po’ ballerina: tra il matrimonio con Flaminia Morandi e quello con Marta Flavi, alla fine degli Anni ’70, Costanzo aveva avuto anche una storia d’amore con Simona Izzo. I due andarono a vivere insieme, ma non si sposarono mai: «È stata divertente. Molto gelosa, però», diceva di lei il conduttore. Fu dopo l’attentato di via Fauro del ’93 – la coppia, ignara, salì a bordo di un’auto diversa, confondendo chi doveva far brillare la bomba – che Costanzo decise di sposare Maria: «Vorrei morire con la mano in quella sua». Nel 2004 adottarono Gabriele, 13 anni, oggi coinvolto nella produzione dei programmi della Fascino – Pgt, la società della coppia (controllata al 50% da Rti, Mediaset, e al 50% da De Filippi, dopo che nel 2008 Costanzo le ha ceduto le sue quote).
LO SCHERZO
Sulla morte i due avevano scherzato in tv: «A me ai funerali non piace andare», aveva ironizzato lei. E lui: «Ma ce devi venì per forza».«Non so se avrò la forza e il coraggio di tendergli la mia mano. Non voglio che mi resti come ultimo ricordo l’intreccio di quelle dita», aveva confessato la conduttrice. Era il 2018 quando le telecamere di Che Tempo Che Fa di Fabio Fazio mostrarono le immagini della loro tenera convivenza, con Maria che accusava Maurizio di mangiare troppo gelato e lui che si difendeva: «Sono una vittima, Maria mi tiene a stecchetto. Però così mi ha fatto arrivare a un’età veneranda».
Mario ajello per il Messaggero«Io non sono romano, de più». Romano super doc, romano al cubo, romanerrimo e romanistissimo. Uno che – come dice il suo amico Francesco Rutelli, con il quale ebbe l’idea del Teatro Tenda Comune, ossia portare nelle periferie anche più remote grandi spettacoli – si allontanava con difficoltà dalla Capitale. Sì, l’estate ad Ansedonia, ma per il resto la sua culla e il suo lievito erano questa città. Come s’è visto anche dalle sue rubriche che per 21 anni, in basso nella prima pagina, hanno impreziosito il Messaggero. Giornale che amava profondamente perché «respira come respira Roma» e «non riesco neanche a prendere il caffè al mattino, se prima non ho letto il nostro giornale». E si riferiva appunto al Messaggero.
IL MIX
Qualche amico, quando lui sconfinava per esempio per una (rara) serata a Trastevere, lo sfotteva: «Sei proprio un romanordaro». Il che è vero nel senso che abitava a Prati, in via Poma, e che la sua seconda casa per decenni – il Maurizio Costanzo Show – è stata in via Borsi al Teatro Parioli, e però era nato e cresciuto in zona via Livorno-Piazza Bologna, aveva frequentato il liceo Giulio Cesare a Corso Trieste, avrebbe abitato a via dei Giubbonari e in via dei Banchi Nuovi, e la sua Roma e la sua romanità spaziavano e s’intrecciavano in un mix di quartieri e in un miscuglio di alto e basso che è sempre stata la sua autentica cifra, mai altisonante e sempre sdrammatizzante, come è storicamente tipico di quelli di qui.
TRAVET
«Se avessi le braccia più lunghe, e invece le ho corte», diceva di sé, «la vorrei abbracciare tutta questa meravigliosa città». Figlio di Ugo, impiegato al ministero dei Trasporti e poi capo della mensa di quel dicastero a Porta Pia, si considerava a sua volta un travet (di quelli iper-operosi e infaticabili: «Il lavoro? È na gioia») e il suo ufficio a due passi da Castel Sant’Angelo è stato una fucina di idee e anche di battute. Come questa: «L’unica cosa che fermava la caduta dei capelli è il pavimento».
E che cosa c’è di più romano, oltre che essere figlio di un ministeriale, che voler fare il giornalista a Roma? Infatti cominciò a Paese Sera. Gli si illuminavano gli occhi quando gli capitava, sconfinando dalla sua Roma Prati («Finalmente Francesco s’è avvicinato a casa mia», sorrideva dopo il trasloco a Vigna Clara del romasuddaro Totti con Noemi) di andare a mangiare alla Carbonara, a Campo de’Fiori: «Una volta – amava ricordare – lì dentro ho fatto fuori un plateau intero di 24 bigné». Tra gli applausi dei presenti.
Quanto al tifo per la Roma, «bulimico» lo definiva lui che si considerava felicemente grasso anche nel modo di amare la sua squadra, basti questa: «Ho cambiato quattro mogli ma sono sempre rimasto romanista. Il tifo è per la vita». Ha fatto tanto per Roma – per esempio imponendo all’immaginario della nazione l’idea che questa città sa unire e tra palco e platea al Parioli c’era una certa idea di Italia – e per la Roma di cui è stato consigliere. Il colpo di genio di Maurizio è stato quello di trasformare Er Pupone – suo amico vero – in un grande fenomeno editoriale. Ossia con la serie delle Barzellette di Totti, oltre due milioni di copie vendute e il ricavato tutto all’Unicef, Costanzo ha reso un campione che era solo simpatico, oltre che geniale sul campo, un personaggio dotato di intelligenza, autoironia, sensibilità sociale, degno di ogni curiosità e amatissimo anche oltre la Capitale e fuori dal mondo del calcio. «Chiamai Francesco e gli proposi: facciamo un libro con le tue barzellette. Lui ci pensò e un attimo e poi disse: ao, però nessuna su Ilary!».
COLOSSEO
Nella sua Roma, naturalmente, il Teatro Parioli ha avuto la funzione del Colosseo. Anche se il Maurizio Costanzo Show era partito dal Sistina e poi fu Grinei a suggerire a Costanzo di traslocare a via Borsi. E lì dietro, a via Ruggero Fauro, andò in scena l’attentato mafioso contro di lui. E ancora: in anni lontani, capitava di incontrare Costanzo al bar in via del Vignola, al Flaminio, dove vivevano i suoi due figli con la mamma Flaminia e dove diede per un po’ una casa anche a Fiorello, e lui ti diceva anche se non eri nessuno: «Hai il capello così pazzo che devi venire a sventolarlo una sera al Parioli».
Ora il suo luogo sarà, per i funerali, la chiesa degli artisti a Piazza del Popolo. E non c’è quasi stato nessuno più artista e più pop di lui.

Massiliano Castellani per Avvenire
«Se telefonando io volessii dirti addio...». Per salutarlo, prendo a prestito le parole che ha scritto lo stesso Maurizio Costanzo, assieme a Ghigo De Chiara, firmando il testo della hit cantata Mina, musicata dal grande Ennio Morricone. Un uomo da Telegatto, ma con ambizioni da Oscar. Questo era Costanzo. Un acrobata dello spettacolo, capace di passare dal talk salottiero, ideato negli anni ‘70, fino alla musica leggera, passando per il teatro e il grande cinema. Oltre alla grande amicizia con i mostri sacri, Alberto Sordi e Vittorio Gassmann, scrisse con Ettore Scola anche la sceneggiatura di Una giornata particolare. Figlioccio, anche per affinità regionali, le radici abruzzesi, di Ennio Flaiano, Costanzo è stato un po’ un marziano in quella Roma anni ‘60 in cui, come la maggior parte dei fenomeni nazionalpopolari, da Arbore a Fiorello, è partita dalla radio. La scuola satirica di Marcello Marchesi ha plasmato quel vivaio di talenti in cui spiccava, assieme all’amico fraterno Enrico Vaime, altro trapezista senza rete, dello show a tutte le latitudini. Certo, ora per qualcuno che analizza la radiografia artistica del Maurizio nazionale, chioserà con un serafico, piccolo “genio del male”. Vero, ma comunque di un genio. Un innovatore assoluto che ha creato una scuola giornalistica, quella dell’informazionespettacolo che ha fatto proseliti e si è allargata nel tempo, anche nelle sue degenerazioni. Vedi alla voce “telerissa- sgarbiana”. Nel titolo della sua ultima autobiografia, Le rose e il tritolo, c’è la sintesi dell’osservatore attento all’evoluzione della “specie italiano” degli ultimi cinquant’anni, al quale ha servito quotidianamente bouquet di fiori freschi. E poi c’è il tritolo, il tentativo, per fortuna fallito, da parte della malavita di eliminare fisicamente la voce scomoda del Parioli. Al Maurizio Costanzo Show aveva denunciato le mafie, le stragi e i tanti misteri di Stato. Quel talk che è stato un po’ la sua cifra ricamata sulle camicie con il collofit debuttò quarant’anni fa, tre giorni dopo l’omicidio del Generale Dalla Chiesa. Alto e basso televisivo, è un metodo che Costanzo aveva sperimentato molto prima della rivoluzionaria Rai 3 di Angelo Guglielmi e la sua consapevolezza era anche nella forza dell’aziendalismo, rimarcato nella nostra ultima intervista: «Se sto a Mediaset faccio fortuna a Mediaset, se sto in Rai faccio fortuna in Rai».