ItaliaOggi, 25 febbraio 2023
Il museo delle cose pratiche
Per visitare tutti i musei di Berlino, uno al giorno, impieghereste almeno sei mesi. Sono circa 180, qualcuno chiude e se ne aprono di nuovi, alcuni vengono sfrattati, e traslocano, come il Museum der Dinge, da tradurre con il museo degli oggetti, o delle cose, versione che preferisco. Il proprietario del palazzo nella Oranienstrasse, a Kreuzberg, non prolunga il contratto d’affitto, e si cerca una nuova sede. Probabilmente riaprirà nel 2027 nella Karl Marx Allee, all’Est.
Si deve spiegare quel che espone. Non è un museo delle arti applicate, né del design. Nelle vetrine troviamo gli oggetti, le cose, della nostra vita quotidiana. A gennaio ha aperto una mostra temporanea, The Story of my Life, fino al primo di settembre, Una sorta di biografia degli oggetti, raccontano la loro vita, e anche la nostra.
Non prestiamo loro attenzione, e li buttiamo senza problemi per comprarne di nuovi. Non sono opere d’arte, anzi tendono al kitsch, altro termine difficile da definire. Cattivo gusto, non gusto? Ma il kitsch ha una sua dignità. Renzo Arbore ne fa collezione, leggo, e i suoi oggetti non piacerebbero a un critico d’arte.
Potrei citare Michel Foucault e il suo saggio Le parole e le cose (Les mots e les choses del 1966). Il filosofo aveva scelto un altro titolo, L’ordine delle cose, ma lo sfoggio di cultura, oltre a essere di cattivo gusto, porterebbe fuori tema. Noi crediamo di creare le nostre stanze, l’ambiente in cui viviamo, in realtà sono le stanze a formare noi. Entrando in una casa si capire chi ci vive.
Anni fa, mi resi colpevole di una gaffe. Invitato a casa di un’amica, le dissi: strano, non mi sembra che questo salotto sia il tuo. E lei scoppiò in lacrime: ogni oggetto era scelto con cura, tutto coordinato dal tappeto, al vaso sul tavolo. Era l’opera di un architetto di interni, scelto dal marito. Tutto perfetto, e senza anima.
Al museo di Berlino sono raccolti ventimila oggetti e 35mila documenti dell’archivio del Werkbund, la federazione dell’artigianato, che risale al 1907, salvato da due guerre e due dittature. Sono le cose della produzione di massa, non le creazioni di designer e architetti, anche se ovviamente non mancano le opere della Bauhaus, concepite per rendere più funzionale la nostra esistenza. Per l’architetto Adolf Loos ogni ornamento inutile era un delitto, uno spreco di materiale. Erano economiche, durante la Repubblica di Weimar, oggi sono considerate opere d’arte.
Al museo è esposto un televisore in bianco e nero prodotto in Germania Est nel 1958, il modello Komet, dalla società Kuba. Un’éra lontana. Oggi in tutte le case troviamo tv a schermo piatto, in formato gigante da appendere a una parete come quadro. Non sono un oggetto di lusso, appena una ventina d’anni fa i primi costavano migliaia di euro. Accanto, un giradischi della Braun, rettangolare con coperchio trasparente, chiamato la «bara di Biancaneve». Per sentire, di rado, i miei 33 giri salvati da 22 traslochi, ho dovuto comprare un giradischi in un negozio specializzato a prezzo da amatore.
Dubito che mia nipote sappia usare una macchina da scrivere. Io conservo una Olivetti 22, non sono originale, lo fanno molti colleghi della mia generazione. Ne ho consumate parecchie, una la persi in Israele. La tengo in uno scaffale come sopramobile, da tempo i nastri da scrivere sono introvabili, e quelli che avevo di scorta si sono seccati. Ho anche una macchina fotografica Rollei, usata dai fotoreporter nel mio primo giornale negli Anni Sessanta. Le pellicole si troverebbero ancora e, a fatica, un laboratorio per sviluppare le foto nel formato 6X6. In un cassetto ho una scatola di pennini in acciaio, che usava mio padre, gli unici con cui riusciva a scrivere. Non prese mai in mano una penna biro.
C’è un muro generazionale tra mia moglie e me che facciamo il caffè con la Moka e i nostri amici che usano le capsule e le macchine elettriche. Non ci capiscono, ci considerano antiquati. Io non comprendo perché rinuncino, in nome della praticità a un piccolo piacere della vita.