La Stampa, 25 febbraio 2023
I due candidati alla segreteria del Pd e il renzismo
Alla fine di una estenuante e non tonicissima corsa alla segreteria del Pd, si può dire che il cuore del dibattito è stato Matteo Renzi: quanto rimane di renzismo nei candidati, quanto furono compromessi col renzismo, quanto collaborarono col renzismo, quanto renzismo resta da far fuori e così via. Dentro il più autorevole partito della sinistra, il renzismo ha preso il posto del berlusconismo come categoria del male, probabilmente per la tendenza a dire chi non si è, non sapendo dire chi si è. Il problema è che Renzi non è stato un gerarca nazista o un liberista del Britannia, ma il segretario. Il loro segretario. Fu eletto nel dicembre del 2013 dopo essere arrivato primo sia nel voto degli iscritti sia nel voto degli elettori. Due mesi dopo, febbraio 2014, convocò una direzione per sfiduciare Enrico Letta, presidente del Consiglio, e prendere il suo posto. Votarono a favore della mozione di Renzi in centotrentasei, sedici i contrari, due gli astenuti. Così, a occhio, un partito piuttosto compatto, e compattamente renziano. Nel 2017, dopo aver perso il referendum e lasciato Palazzo Chigi, Renzi si ricandidò alla segreteria, rivinse nel voto degli iscritti, rivinse nel voto degli elettori, e in entrambi i casi col settanta per cento delle preferenze. Di nuovo a occhio, fra chi lo ha votato o sostenuto la prima volta, chi la seconda, chi nella direzione del letticidio, chi ha incassato incarichi di governo, parlamentari, ruoli nel partito, candidature ed eurocandidature, ne saranno rimasti forse due o tre autorizzati a dirsi non renziani. E l’allucinazione collettiva non mi sembra tanto di allora, ma di oggi.