Il Messaggero, 24 febbraio 2023
Ritratto di Putin
Prigioniero di un sogno, quello di riconsegnare ai posteri un Impero. Putin ha avviato una guerra ideologica e religiosa, imperiale, nostalgica. La più insidiosa. E che vinca o perda, consegnerà ai pronipoti una Russia minata dalla vergogna di un conflitto ingiusto e fratricida, lordato da crimini di guerra che sono sotto gli occhi del mondo. Ricorre oggi un anno di orrori, con decine di migliaia di morti tra civili e militari. E lo stupro di un Paese indipendente, che tale è rimasto. In molti si sono via via esercitati a capire che cosa vi sia nella testa di Putin. O nella sua mente. Qualcuno ha perfino ipotizzato che sia malato e che la malattia abbia provocato un corto circuito che gli ha fatto ordinare l’invasione. «La Russia ha due soli alleati: il suo esercito e la sua flotta», è il motto di Alessandro III, il suo Zar preferito, inciso sotto la statua inaugurata proprio da lui nel 2017 a Yalta, là dove fu ridisegnato il mondo riemerso dopo la Seconda guerra mondiale e dove oggi si gioca, di nuovo, il futuro non solo dell’Europa. Bisognava capirlo dalla campagna di avvelenamenti di nemici e dissidenti, e uccisioni inspiegabili e spiegabilissime, fin nel Regno Unito, e dalla violenza dell’intervento in Siria con l’avallo delle armi chimiche di Assad. Putin è un autocrate, leader di un grande Paese che è anche potenza nucleare. Illuminanti le quattro ore di intervista con Oliver Stone, in cui espone con precisione le sue idee. Le sue aspirazioni e i suoi incubi... La sindrome dell’accerchiamento da parte della Nato, e il tentativo di evitare che l’Ucraina, percepita come parte della Russia storica, si stacchi dalla Madre Russia e si associ all’Unione europea e rientri nell’orbita Nato. Col risultato, però, di spingere Svezia e Finlandia ad abbandonare la neutralità e ad aderire all’Alleanza. Colpisce che non vi sia una sostanziale differenza tra il primo discorso di Putin il giorno dell’invasione, e l’ultimo davanti all’assemblea federale. Nel mezzo, la sua immagine è stata quella di un leader solitario, che gode ancora della fiducia del consenso maggioritario nella Federazione ma non sappiamo quanto gravato dal polso di ferro del regime, e tuttavia preoccupato di marcare e mantenere le distanze con i suoi più stretti collaboratori.
Basti pensare al video e alle foto di Putin a capotavola di un tavolo lunghissimo in fondo al quale siedono timorosi, rimpiccioliti dalla prospettiva, il ministro della Difesa Shoigu e il capo di stato maggiore Gerasimov. Eccolo di nuovo, Putin, nella desolazione della preghiera in solitudine, lui e un pope, in una delle chiese del Cremlino in occasione della Pasqua ortodossa. E, ancora, nel mezzo di un discorso tra militari in tenuta da combattimento, tra i quali però si riconoscono quelli che già in passato hanno fatto da corredo ad altri video: persone fidate, forse del suo entourage della sicurezza.
LA “SCOMMESSA"
Un uomo solo (in tutti i sensi) al comando. Forte di un consenso che regge, nella Federazione, grazie al rigido controllo dei media e alla presa personale sugli apparati militari e di sicurezza. Le parole d’ordine sono sempre le stesse: la rivendicazione di una supposta supremazia morale sull’Occidente “degenerato”, arrendevole con gli omosessuali e allergico alle armi. Fin dal primo momento, Putin ha scommesso sulla debolezza del governo ucraino, addirittura appellandosi al popolo di Kiev per rovesciare Zelensky, che invece si è imposto come eroe nazionale. O su quella dell’Occidente, che considera diviso all’interno e sensibile al ricatto energetico. Soprattutto l’Europa.
Dev’essere stato un risveglio scomodo, per Putin, scoprire che Zelensky era uno statista e non un comico o un fantoccio, e che il popolo ucraino confermava col suo coraggio il voto per l’indipendenza del 1991 (maggioritario in tutte le regioni, compresi Donbass e Crimea) e addirittura cementava, per effetto dell’invasione russa, il proprio sentimento di identità nazionale, la volontà di indipendenza, e la vicinanza all’Occidente. Per non parlare della Chiesa ortodossa di Kiev, anch’essa ormai liberata dalla sudditanza rispetto a Mosca e al patriarcato pro-Putin, imperialista e guerrafondaio, di Kirill.
Nel corso della guerra, Putin ha dovuto affrontare le critiche interne del suo ex chef e capo dei mercenari di Wagner, Prigozhin, lo stillicidio di lamentele dei blogger militari e la delicata partita degli equilibri interni alla macchina militare. E l’isolamento internazionale. E ha dovuto gestire l’urto delle sanzioni. Segnali di malumore arrivano anche dall’interno del Cremlino. Per il momento lo Zar è in sella, saldo nella plancia di comando della Federazione. E i militari obbediscono ai suoi ordini. Perché la Russia è la Russia. Ma fino a quando?