La Stampa, 24 febbraio 2023
Intervista a Gianrico Carofiglio
Gianrico Carofiglio non sa ancora se domenica andrà a votare alle primarie. Non lo dice per spirito di contraddizione, non lo fa per darsi un tono. Il suo spaesamento, i suoi dubbi, le sue riserve sono quelli di migliaia di elettori del Pd. «Ci sono cose che mi convincono e non mi convincono di entrambi i candidati – dice lo scrittore, che lunedì sarà di nuovo in tv, su Rai3, con Dilemmi – Soprattutto, non mi convince il percorso che ha portato fin qui».
Le avevano chiesto di far parte del comitato che avrebbe dovuto dar vita alla carta dei valori, di cui non si è saputo più nulla. Come mai ha declinato?
«Immaginavo sarebbe andata così. Ci voleva un’impostazione meno declamatoria. Prendere un sacco di gente e metterla insieme in fretta e furia per decidere qualcosa è di solito un ottimo modo per non decidere nulla».
Il Pd in realtà è stato accusato di lentezza.
«Si vota di nuovo l’anno prossimo,il tempo c’era. Penso sarebbe stato meglio scegliere un segretario o una segretaria di transizione che potesse fare un lavoro di manutenzione straordinaria del patrimonio ideale».
Per lasciare spazio al dibattito di idee e non allo scontro personale?
«Per una riflessione su valori e strategie che andasse al di là delle frasi fatte e delle cose che si ripetono in maniera meccanica e vuota. Se non sai dire chi sei in modo che tutti lo capiscano, non lo hai capito nemmeno tu».
Alle ultime elezioni il Pd non si è saputo raccontare?
«Una campagna elettorale sbagliata ha prodotto quel che è successo».
Serve cambiare nome? Partito del lavoro la convince?
«In realtà poco. Un tempo i due grandi fattori del conflitto sociale erano il capitale e il lavoro. Adesso c’è un capitale tutto finanziario, altamente tecnologico, mentre il lavoro è sbriciolato in mille entità in conflitto tra loro. È chiaro che devi occupartene, ma non può definirti come 70 anni fa, quando infatti gli operai votavano Pci. Adesso gli operai votano Fratelli d’Italia».
E cosa ti definisce, se sei un partito di sinistra?
«La dignità. Ma non quella da pacca sulla spalla. La nostra società è sempre più divaricata nelle sue diseguaglianze. La narrazione è che se stai in alto te lo sei meritato e se sei in basso ti sei meritato anche quello. Una chiave di lettura del mondo spietata che non fa che accelerare e moltiplicare il rancore e il senso di ingiustizia, carburanti del populismo. Il compito della sinistra è disattivare questa macchina, prendere quella roba lì e farne un impulso di trasformazione sociale. Perché è chiaro che ci sono meriti e responsabilità individuali, ma quando un fenomeno è strutturale non può essere quello il discrimine».
E qual è?
«Michael Sandel in La tirannia del merito dice che bisogna passare dall’etica del merito all’etica della fortuna. Chi ha successo non ce l’ha solo in base a doti o impegno, ma grazie all’essere stato o meno fortunato. Bisogna introdurre questo elemento nel dibattito non per punire i ricchi, ma per recuperare la dignità degli sfortunati. Essere socialista, diceva Olof Palme, non significa essere contro la ricchezza, ma contro la povertà».
Il concetto di merito ha dominato anche una lunga stagione del Pd, soprattutto con Matteo Renzi.
«È stata ed è un’illusione insidiosa. Ma il merito individuale non può prevalere sulle ingiustizie strutturali. Conta dove sei nato, con che patrimonio genetico, in che scuola sei potuto andare, se la tua vita è stata investita da guerre, alluvioni, terremoti. La politica della sinistra e del progresso non è più il socialismo, la contrapposizione capitale-lavoro. Adesso la sinistra deve farsi carico di un sistema che ha in sé le condizioni dell’ingiustizia e di lesione della dignità umana».
Gli elettori del Pd sono chiamati a fare una scelta. Stefano Bonaccini ha una visione più pragmatica e moderata, Elly Schlein è una candidatura più di rottura. Perché non andare a indicare una strada?
«Le spiego i miei dubbi. Se viene eletto Bonaccini c’è il rischio che un pezzo di mondo, più giovane, meno strutturato, si senta escluso. D’altro canto, il presidente dell’Emilia-Romagna dà la sensazione di poter andare alla ricerca di accordi a oggi indispensabili. Su Schlein, che conosco e stimo, ho perplessità di metodo: candidarsi a segretaria senza essere stata iscritta fino al giorno prima mi è sembrato strano. Se vincesse potrebbe attirare una platea inattesa e silente, col rischio però che si interrompano i canali di comunicazione con forze più di centro. Si potrebbe reiterare una sorta di vocazione minoritaria, una coazione a perdere. Mentre bisogna voler vincere con tutti i mezzi leciti, nella consapevolezza che il sistema implica la ricerca di compromessi. È una parola sana, compromesso, gravemente e ingiustamente danneggiata. Significa promettere insieme».
Ha letto le parole di Valditara contro la lettera antifascista della preside Annalisa Savino?
«Ho trovato inquietante la minaccia. Il ministro dopo lo scivolone delle umiliazioni in classe ha perso un’altra occasione per tacere. Non credo ci sia un pericolo fascista e credo sia addirittura positivo che un ministro di destra e una dirigente non di destra esprimano opinioni diverse. Ma la violenza felpata delle parole “vediamo se continua” è inaccettabile».
C’è un tentativo incessante di riscrittura della storia da parte di questa maggioranza?
«C’è, in maniera goffa e con scarsezza di strumenti culturali, il tentativo di riscrivere alcuni snodi nevralgici della storia e quindi di cambiarne il significato. A partire dall’essere italiani in una Repubblica nata dalla resistenza ai nazifascisti. Serve una vigilanza culturale e politica che abbiamo tutti i mezzi per compiere, compresa l’ironia. Ma non bisogna commettere l’errore di immaginare a breve termine un futuro autoritario dal punto di vista delle istituzioni e della cultura, perché si rischia di fare come nell’ultima campagna elettorale, agitando uno spettro cui non crede nessuno».
Quale doveva essere il messaggio del centrosinistra contro la destra di Meloni?
«Dire: non crediamo che tu sia fascista, che FdI sia un partito fascista, anche se crediamo che al suo interno ci sia qualche fascista. Quel che pensiamo è che sia un partito che guarda al passato, mentre noi siamo le forze del progresso e del futuro».
Non è andata così. Ha apprezzato le lodi a Meloni di Letta e Bonaccini?
«Penso ci sia stato qualche eccesso nel tono di quegli elogi. Le doti politiche di Meloni non sono in discussione. Dicono sia personalmente simpatica e sembra credere in quel che fa, ma la sua cultura politica è profondamente di destra. Tanto da mettere davanti a tutto la tutela delle amicizie personali, lanciandosi in difese dal mio punto di vista assurde».
Non doveva difendere Delmastro e Donzelli?
«Sono indifendibili, hanno dimostrato un’insipienza politica altissima, bersagli facili che le daranno ancora problemi».
Ha ragione Nordio quando dice che è lui a decidere cos’è segreto nel suo ministero e cosa no?
«Quel che ha detto è privo di senso giuridico. Non è il ministro a decidere, ma le leggi, che ai magistrati spetta interpretare. Nordio ha un problema con i magistrati e la magistratura che lo porta a fare uscite di grande debolezza».
Nel suo Dilemmi ci sono due persone che dibattono su temi spinosi seguendo regole precise – nella prima puntata il sesso a pagamento, poi il carcere, la maternità surrogata – ma non ha toccato il tema della guerra, che per la sinistra sta diventando un nuovo tabù.
«La mia opinione sull’aggressione della Russia in Ucraina è che dolorosamente bisogna andare avanti così. Credo però sia necessario ci siano voci critiche, anche se a volte non coerenti fra premesse e conclusioni, per evitare ci si abitui a ciò che anche se doveroso, resta scandaloso: la risoluzione del conflitto attraverso le armi. Non bisogna guardare con disprezzo o diffidenza chi esprime opinioni contro l’invio di aiuti militari. Il dilemma però in questo caso è: se si smette di mandarli, cosa succede?».
Dubito che la conseguenza per l’Ucraina sia la pace.
«Appunto».
Come si esce da queste contrapposizioni che negano la legittimità dell’idea altrui?
«La tecnica è la carità interpretativa, premessa etica ed epistemologica del vero dialogo. Bisogna partire dal presupposto che l’altro, anche se dice qualcosa per te inaccettabile, lo faccia in buona fede. In Dilemmi il duello dialettico ha regole precise: capita che la discussione si accenda, ma non travalica mai e a volte si trovano perfino dei punti di incontro tra posizioni apparentemente inconciliabili. Quest’anno ci sarà anche la musica, con Frida Bollani Magoni che a ogni puntata canterà una cover inerente alla puntata. E le mie chiacchierate con i librai, una delle istituzioni culturali più importanti di questo Paese». —