La Stampa, 23 febbraio 2023
Intervista a Stéphane Courtois
L’asse principale dell’opera si basa sul fatto che Putin è un uomo del Kgb». Ha bisogno di poche parole lo storico francese Stéphane Courtois per riassumere Il libro nero di Putin (Mondadori), che ha curato insieme alla collega Galia Ackerman. Una raccolta di saggi dove viene ripercorso il cammino politico, professionale ed esistenziale dell’inquilino del Cremlino, in un’ascesa segnata dallo shock per la fine dell’era sovietica e una voglia di rivalsa nei confronti del mondo intero. Il profilo che ne esce è quello di uno zar spietato, che ha raccolto l’eredità russa del secolo scorso mettendola al servizio di un nuovo sistema imperiale, sfociato nell’aggressione all’Ucraina. Il titolo fa eco a Il libro nero del Comunismo, che Courtois pubblicò alla fine degli anni Novanta, tra feroci polemiche e strumentalizzazioni. «È quasi inevitabile quando si fa un libro del genere», dice oggi lo storico, che in gioventù militò per qualche anno in un gruppo maoista francese vicino a Lotta Continua, Vive la Révolution.
A partire dal titolo, quest’ultimo lavoro sembra essere legato a doppio filo al Libro nero del Comunismo.
«In qualche modo ne è la continuazione, perché Putin rappresenta il proseguimento di quello che è successo nel periodo descritto in quell’opera».
Quanto c’è oggi in Putin dell’Homo sovieticus?
«Direi tutto. Il presidente russo ha passato i primi 40 anni della sua vita sotto l’Unione Sovietica e, di questi, 20 anni li ha trascorsi come agente del Kgb. Faceva parte di quello che era un organo del terrore, il cui principale compito consisteva nel proteggere il potere. A Putin non è rimasta una mentalità da comunista ma da kgbista, per questo ha l’abitudine di agire in tutta impunità, proprio come facevano i suoi vecchi colleghi che incarceravano, torturavano e avvelenavano senza timori di subire conseguenze».
Cosa ha rappresentato per lui il crollo di quel mondo?
«Putin è rimasto doppiamente traumatizzato da due eventi. Il primo è stato la caduta del muro di Berlino, nel 1989. In quell’occasione si trovava a Dresda, in Germania, dove sappiamo che difese un palazzo del Kgb armi alla mano, minacciando chi provava ad assaltarlo. Poi, due anni dopo, visse in prima persona la scomparsa dell’Unione Sovietica. Per lui fu come assistere al crollo del suo universo, e ancora oggi prova un forte rancore per quello che è successo. Del resto, lo ha detto chiaramente nel 2005, quando ha dichiarato che “la dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo"».
Quindi il capo del Cremlino vuole un ritorno al passato?
«Cito un’altra dichiarazione, ancora più importante: “Chi non rimpiange l’Unione Sovietica non ha cuore, chi vuole ricrearla identica a come era non ha cervello”. È come un messaggio subliminale, dove il concetto sta in quella parola: “identica”. Sa bene che la ricostituzione di un modello come quello scomparso è impossibile perché il comunismo è finito. Putin vuole quindi ricrearlo in un altro modo».
È come se un intero Paese non avesse fatto i conti con la sua storia.
«La Russia ha fallito il processo di uscita dal comunismo. La popolazione dopo il crollo dell’Urss non aveva una conoscenza pubblica della propria storia, perché fino a quel momento era stata controllata dal potere comunista. C’era quindi la voglia di sapere cosa fosse realmente accaduto. Putin, però, ha distrutto tutto e il modo in cui ha represso l’associazione Memorial è sintomatico di questa strategia. Ha schiacciato tutti coloro che volevano raccontare quello che era successo negli ultimi settant’anni».
In Putin c’è una nostalgia anche di Stalin?
«Alla fine degli anni 80 era una figura in calo, perché si cominciava a sapere qualcosa su quanto era accaduto. Ma Putin ha contribuito a riscattarlo già negli anni duemila. Inizialmente faceva una sorta di doppio gioco: da un lato ricordava il terrore, le violenze e le vittime innocenti del periodo staliniano, ma dall’altra lo presentava come colui che aveva battuto i nazisti. Adesso, però, siamo in un’altra fase: quella della riabilitazione totale».
Ma a che pro?
«Stalin agli occhi di Putin rappresenta l’uomo forte che non si lascia intimidire, che liquida i suoi nemici in ogni modo. Il suo principale strumento politico era il terrore. Un po’ come fa il presidente russo, che ha fatto sparire gli oppositori con avvelenamenti, omicidi e incarcerazioni».
Sembrerebbe però che in Putin ci sia un senso di rivincita personale, un riscatto dall’umiliazione subita con il crollo del mondo nel quale si è formato.
«Assolutamente, soprattutto nella questione ucraina. Il presidente russo ha preso molto sul personale le proteste di Maidan avvenute tra il 2013 e il 2014, quando il presidente Viktor Janukovy? scappò in Russia dopo aver sospeso le trattative con l’Unione Europea. Putin era furioso, non poteva concepire il fatto che un popolo potesse cacciare il proprio presidente».
Lei si aspettava l’aggressione all’Ucraina scattata un anno fa?
«Non proprio. Certo, accendere la televisione e vedere una colonna di carri armati avanzare verso Kiev mi ha sorpreso. Ma quello che mi ha veramente stupito è l’errore fatto da Putin sul calcolo del rapporto di forza tra il suo esercito e quello ucraino. Pensava di prendere la capitale in tre giorni, ma ad un anno dall’inizio del conflitto è stato addirittura costretto ad indietreggiare in molte zone. C’è poi un elemento che non bisogna dimenticare: l’Ucraina post-sovietica era diventata progressivamente un Paese ricco e Putin pensava di appropriarsene senza difficoltà, come del resto aveva fatto capire da molte dichiarazioni rilasciate prima dell’attacco. Infatti, nelle zone dove sono state costrette a ritirarsi, le truppe russe hanno riportato con sé tutto quello che sono riuscite a saccheggiare, come nel 1945 quando l’Armata Rossa ha rubato in tutta l’Europa dell’est».
E come si spiega una simile mossa, al netto degli aspetti geopolitici?
«Dall’aggressione all’Ucraina emerge la psicologia di Putin tipica del Kgb e di Stalin. È una paranoia, che viene dall’idea di sentirsi accerchiati da nemici che vogliono far del male alla Russia».
Dalla quale scaturisce un certo tipo di narrazione.
«È sorprendente vedere la mitologia nella quale Putin si è calato, che poi somiglia molto a quella sovietica. Come quando dice che russi e ucraini fanno parte dello stesso popolo. Ricorda Leonid Breznev quando sosteneva che tutti i popoli dell’Urss sono fratelli. Sui quali però si sparava».
Qual è la responsabilità dell’Occidente in quello che sta succedendo?
«Nel Kgb, oltre al terrore e alla violenza si apprende anche a mentire, a ricattare e a truffare. Negli anni Duemila il mondo occidentale ha fatto di tutto per aiutare il presidente russo, ma solamente quando si è fatto rieleggere e ha cambiato la Costituzione per rimanere al potere fino al 2036, il mondo ha cominciato a capire che quello alla guida della Russia non era il democratico che si credeva». —