la Repubblica, 23 febbraio 2023
Intervista a Joan Baez
«Era ora o mai più» dice Joan Baez, che incontriamo in un salottino del Berlinale Palast. L’icona folk parla del documentario che ne ripercorre sessant’anni di gloriosa carriera e che, a sorpresa, si addentra in segreti e drammi familiari – le molestie del padre, la gelosia della sorella, i suoi attacchi di ansia e l’instabilità mentale – che restituiscono un’immagine lontana dalla “santa” pacifista amata dalle folle. A 82 anni, capelli argento e figura snella, è in grande forma: come l’ Ennio di Tornatore, I am a noise (di Miri Navasky, Jaren O’Connor e Maeve O’ Boyle) si apre sui suoi tenaci esercizi quotidiani di ginnastica per il corpo e la voce.
Perché questo film adesso?
«È il mio terzo libro di memorie. Uno l’ho fatto a vent’anni, uno a quaranta e da allora sono successe molte cose.
Non ho mai raccontato prima quello che c’è in questo film, mai. Ho dovuto aspettare che i miei genitori, tutta la mia famiglia, non ci fossero più».
Sono ricordi dolorosi, gli attacchi di panico, i problemi mentali...
«Molto. A volte rivedere questo film mi travolge, altre penso che sia bello e sono felice di averlo portato a Berlino, dal pubblico. Sotto il mio sorriso tranquillo – sono cresciuta sotto i riflettori – ho nascosto tanta sofferenza, a quindici anni: i dottori pensavano al ricovero peri problemi mentali, io depressa e sofferente e ansiosa. Le reazioni qui sono state buone. In tanti hanno problemi di ansia, difficoltà per la maternità, problemi sentimentali. Che ne parli qualcuno di famoso è liberatorio, ti fa pensare che possa farlo anche tu.
Voglio raccontare sinceramente chi sono stata. Posso farlo, non ho niente da perdere».
Lei è nata in una famiglia brillante. Suo padre, fisico pacifista, rifiutò il progetto Manhattan. Ma ha molestato lei e sua sorella. Com’è stato mantenere il segreto e ora cosa prova per suo padre?
«Ho lavorato tanto su me stessa, oggi non ho più risentimento. So che mio padre ha vissuto qualcosa di simile, che si è tramandato in famiglia e che ne ha sofferto anche lui. Forse anche i miei nonni, ma non ho comprensione per loro. Mio padre era un brav’uomo, ma io e mia sorella cisiamo confrontate, non abbiamo frainteso o confuso. Ho aspettato che lui non ci fosse più per affrontare la cosa e condividerla».
28 agosto 1963, il giorno della marcia e del discorso di Martin Luther King: lei era lì.
«King l’ho ascoltato la prima volta a 16 anni al liceo, ci raccontava dei boicottaggi degli autobus a Montgomery e io piangevo. Da allora l’ho seguito».
C’è stata un’altra marcia su Washington dopo l’omicidio di George Floyd.
«I diritti ottenuti con quelle lotte non ci devono essere tolti. Ma le cose sono andate male da allora, in Usa c’è un’altra ondata di male. Allora eravamo compatti ad affrontare ogni azione non violenta. Ora c’è il caos.
Non sappiamo cosa farà finalmente la differenza. Ogni nuovo ragazzo nero che viene ucciso è un dolore insopportabile».
C’è bisogno di un leader come King, oggi?
«Allora nei movimenti discutevamo, non volevamo alcun leader. Invece ne abbiamo bisogno, serve una struttura, sono troppe e diverse le spinte. Avremmo bisogno di qualcuno che ci riunisse facendoci pensare che le cose sono possibili».
Anche la musica era uno strumento potente. Oggi?
«Potrebbe esserlo, ma non credo che sia organizzata per farlo. Tutto è frammentato, pensieri sparsi, organizzazione disperse. Come nonbastasse c’è stato il Covid, e negli Stati Uniti c’è una guerra per la propaganda. Cercare di sfondare con qualcosa di intelligente è difficile.
Uno dei problemi è che allora avevamo Joni Mitchell, Bob Dylan, oggi c’è molta buona musica, ma quei talenti non sono stati sostituiti».
Il film è prodotto da Patti Smith.
«Ha voluto sostenermi, siamo amiche da anni, le ho anche fatto un bel ritratto. È una creatrice di guai… è brava, buona, talentuosa».
Il cinema ha la forza della musica?
«Tutto ciò che sposta i confini è importante. Durante un concerto con Mercedes Sosa, le dissi: la musica è l’unica cosa che attraversa i confini. E lei : la musica e il cibo».
L’artista con cui ha più amato condividere il palco?
«Nulla è paragonabile a stare sul palco con Bob Dylan, all’energia di quell’epoca. Dylan mi ha cambiato, lui e la sua musica, gliel’ho scritto.
Anche se non ci dovessimo vedere più, va già bene così».
Il momento sul palco più esaltante?
«Il concerto in Italia, con il vostro pubblico c’è stato un rapporto incredibile. Mi piaceva cantare C’era un ragazzo che come me...Un momento perfetto».
“Here’s to you”. Nicola e Bart.
Che ricordi ha?
«Non sono una nostalgica ma questa canzone scritta cinquant’anni fa è ancora straordinariamente popolare. Non è pazzesco? E non ho mai accettato i diritti d’autore. Se l’avessi fatto non avrei avuto più bisogno di lavorare. È stato un lavoro complesso. Furio Colombo l’ha arrangiata e mi ha detto: Morricone vuole che tu scriva le parole, e io ci ho lavorato. E all’ultimo minuto Morricone, intonando il celebre ritornello, mi ha detto “ho una cosetta da farti fare: puoi scrivere parole su questo?”. Quel brano è nato così».
Quali pensieri la preoccupano?
«Il riscaldamento globale, l’estinzione di alcuni animali. Nel film c’è quell’uccellino che cinguetta, l’ascolto sempre: aspetta il controcanto degli altri. Prima erano centinaia. Ora nessuno risponderà».