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 2023  febbraio 23 Giovedì calendario

Intervista a Carolina Kostner

«Nell’ultimo periodo ho riflettuto su cosa significhi davvero il pattinaggio per me. Non sono solo i risultati e le medaglie a motivarmi. Lo sport è sempre stato un modo per esprimermi: sul ghiaccio avverto una pace interiore, mi sento a casa. In verità credo di aver cominciato prima a pattinare che a camminare...».
Cresciuta sulla patinoire, anche da grande Carolina Kostner non riesce a separarsene. A 36 anni compiuti da poco, dopo aver scolpito sul ghiaccio i ghirigori che in Italia nessuna – prima di lei – era riuscita a fare (un leggendario bronzo olimpico, un oro mondiale datato 2012 che brilla ancora fin qui, 5 ori europei, più tutto il resto), non ha mai detto basta, mi tolgo i pattini, smetto. Sta per tornare, anzi. Sabato, al PalaVela di Torino («Uno dei miei luoghi del cuore»), sarà la star più brillante di «Cinema on ice», lo show originale che unisce colonne sonore e performance sul ghiaccio.

Tutto cominciò proprio lì, nel 2006, ai Giochi italiani di cui fu portabandiera a 18 anni, Carolina.
«Quanti anni sono passati, ero una bambina emozionata e felice... A Torino pattinerò con un messaggio di speranza, di cui in questi tempi abbiamo tanto bisogno: che tutti trovino il coraggio di rialzarsi e andare avanti».
E pensare che questa storia iniziò con gli sci da discesa libera, proprio come sua cugina Isolde.
«Ho sciato fino a 14 anni, quando una frana si abbattè sul palazzetto di Ortisei. Poi, dovendo andare a Bolzano o Merano per pattinare, non riuscivo più a conciliare tutto. Ma il pattinaggio mi piaceva di più, non c’era gara».
Qual è il suo programma più iconico?
«Oddio, sceglierne uno è tanto difficile... Alcuni mi piacciono per i movimenti, altri per le emozioni che mi hanno trasmesso. Se proprio devo, dico il Bolero della medaglia di bronzo all’Olimpiade di Sochi 2014. È stato un lungo percorso di evoluzione passato attraverso il concerto per piano n.23 di Mozart, che doveva farmi crescere per arrivare a interpretare l’Ave Maria di Schubert, il programma obbligatorio di quei Giochi».
E l’avversaria più forte?
«Ho ammirato tanto la coreana Kim Yu Na per la costanza e la giapponese Mao Asada per la forza mentale. L’atleta perfetto però non esiste, ciascuno porta sulle lame il suo carattere e la sua personalità. Difetti inclusi».
Dove tiene coppe, trofei e medaglie?
«Non sono una persona materiale: il valore più grande ce l’hanno le esperienze che ho avuto, le persone che ho incontrato, le sensazioni che ho vissuto. Certo gli oggetti sono legati a luoghi e situazioni, rispolverano ricordi. È tutto a casa dei miei genitori, a Ortisei: mamma ha catalogato ogni cosa. Una volta un tifoso mi mandò un gioiello, accompagnato da una bellissima lettera. Ricordo il valore di quel gesto. E ho tenuto tutti i disegni dei bambini: bellissimi, raccontano più di mille parole».
Carolina lei ha aperto una strada però non è nata una scuola: ai Giochi di Milano-Cortina 2026 mancano solo tre anni e non abbiamo ragazze italiane di talento che possano ambire al podio nell’Olimpiade di casa.
«Un campione non si costruisce in quattro anni. Le società lavorano con i mezzi che hanno, in silenzio. Spero, un giorno, di aprire una scuola mia. Sono una donna, ormai: c’è un’ambizione di famiglia da coltivare, che ha bisogno di essere conciliata con i progetti lavorativi. Sono sempre presente al Campionato italiano e le ragazze sanno che possono contare su di me quando vogliono».
A proposito di voglia di maternità: cosa ci fa una gardenese sul lago di Bracciano?
«Fabrizio, il mio compagno, osteopata, abita e lavora lì. Vivo in perenne attesa che il lago ghiacci, come piace a me sulle Dolomiti, ma non succede mai! Mi divido comoda tra la Val Gardena e Roma, sono via dalle mie montagne da dodici anni, ormai, oggi le vivo in modo diverso. Ortisei significa vacanza, tempo libero, famiglia, relax».
Su Netflix sta per uscire il docu-film sulla storia di Alex Schwazer, l’ex fidanzato marciatore per il quale mentì a un ispettore dell’antidoping. Quella bugia le costò una dolorosa squalifica. Come è stato tornare su quei fatti?
«Non facile. Non lo sarà mai».
Punto?
«Punto».
Si è accomiatata dalle gare in punta di piedi.
«Per colpa di un infortunio molto serio, poi è arrivato il Covid, poi il tempo è volato. Ma sogno di organizzare uno spettacolo per celebrare le tante persone con cui ho lavorato in questi anni: più che per dire addio, per dire loro grazie».
L’operazione all’anca è un regalo dei salti sui pattini?
«E chi lo sa...? Sono nata con un’anca con una displasia accentuata. Ho pattinato tanti anni, allenandomi moltissimo. Tornando indietro, rifarei tutto. Io credo che ci voglia coraggio per lasciarsi sorprendere dalla vita».
Non ha rimpianti, dice. Eppure il bronzo di Sochi valeva almeno argento, Carolina, ma i giudici vollero premiare l’atleta russa, Adelina Sotnikova.
«Sono sincera: per me quella medaglia vale oro. A casa delle russe ero pronta ad accettare un probabile quarto posto. Tutto ciò che è arrivato dopo, è stato un di più: da quel momento non ho più avuto bisogno di dimostrare a me stessa che so pattinare. Da lì in poi ho pensato solo a ispirare le persone, anche quelle che non facevano il tifo per me».
Come le piacerebbe rendersi utile per l’Olimpiade di Milano-Cortina?
«Ho già un ruolo di ambassador datomi dalla Fondazione ma mi piacerebbe lavorare con i giovani: lo sport è un veicolo potente per trovare la forza di volontà dentro se stessi. Lo dico per esperienza».
Rifarebbe proprio tutto?
«Non so come rispondere... Se torno indietro alla decisione di trasferirmi a Oberstdorf, in Germania, a 12 anni, sì: penso che in quel momento fosse giusto farlo. Le lezioni della vita le ho imparate tutte. Mi piace guardare sempre avanti, non indietro».
Avendo realizzato tutte le sue aspirazioni sul ghiaccio, adesso cosa sogna?
«Di avere dei figli e un impatto positivo sulle persone che mi stanno intorno».