il Giornale, 23 febbraio 2023
Nella più antica lirica italiana c’è qualcosa di «leghista»
La notizia riguarda il quando e, soprattutto, il dove. Anche se qui si tratta di poesia, la materia meno vincolata ai dati cronachistici, perché nasce e vive oltre le contingenze, e non muore mai. Dunque, che la lirica italiana più antica non fosse quella Rosa fresca aulentissima di Cielo (o Ciullo) d’Alcamo che al liceo i prof ci proponevano a esempio della «scuola siciliana», suscitando gli ammiccamenti di chi aveva assistito, alla Palazzina Liberty in Milano, alla rilettura erotica che ne dava Dario Fo in Mistero buffo, lo si sa da decenni. Il primato spetta a Quando eu stava in le tu’ cathene. Sempre di amore si tratta. Anno di grazia 1180, si pensava. Invece no, dobbiamo spostarci in avanti, al 1226. Lo hanno stabilito due studiosi dell’Università di Pisa, la storica della lingua Roberta Cella e il paleografo Nino Mastruzzo, esaminando il testo composto da 50 versi divisi in 5 strofe, più un ritornello, scritto su pergamena da un anonimo e conservato nell’Archivio storico arcivescovile di Ravenna. Questo è il quando. Ma se il quando lo sommiamo al dove, appunto a Ravenna, come sottolineano Cella e Mastruzzo nel loro libro edito dal Mulino l’anno scorso, scopriamo che il momento storico e il luogo hanno una valenza anche politica. Nel 1226, fra aprile e maggio, l’imperatore Federico II, sovrano peraltro illuminato dai bagliori poetici, era in ambasce con tutta la sua corte proprio a Ravenna. Aveva un problema impellente da risolvere: proseguire verso Cremona, dove aveva convocato una dieta con sul tavolo tre argomenti cruciali, cioè la restaurazione dei diritti imperiali sulla Lombardia, la preparazione della Crociata promessa a papa Onorio III e la repressione degli eretici. E chi erano gli eretici (politici)? Quelli della seconda Lega Lombarda, quelli che lo tenevano bloccato lì... Ma leggiamola, questa lirica amorosa. «Null’om non cunsillo de penare/ contra quel ke plas’al so signore,/ ma sempre dire et atalentare,/ como fece Tulio, cun colore». Cioè, nella parafrasi della Treccani: «Non consiglio a nessuno di opporsi a ciò che piace al suo signore, bensì di parlare in modo da rendersi gradito, come Cicerone, con abbellimenti retorici». E ancora: «Eu so quel ke multo sustenea/ fin ke deu non plaque cunsilare;/ dì né notte, crethu, non durmia,/ c’ongni tempu era ’n començare./ sì m’avea posto in guattare». Ovvero «Io sono quello che molto sopportavo finché a dio non piacque di aiutarmi; giorno e notte, credo, non dormivo perché in ogni istante ero sempre all’inizio (e tanto m’ero posto a vigilare)». Non conosciamo l’autore di Quando eu stava in le tu’ cathene, ma già il primo verso e quelli citati, scritti o letti lì, in quel momento, potrebbero esulare dalle questioni di cuore e suonare, alle orecchie di Federico II, come un canto di protesta. «Catene», «opporsi al signore», «sopportare»... Insomma, i leghisti contro l’imperatore che veniva dal Sud.