La Stampa, 22 febbraio 2023
Anche gli influencer si dimettono
Si dimettono anche gli influencer. Più precisamente, abbandonano a poco a poco il ruolo, la community, l’onere dell’engagement. Fanno, cioè, quite kitting (abbandono silenzioso), che è la variante dorotea del licenziarsi. Diradano presenza, produzione, vita e destino sui social. Cambiano, principalmente per due ragioni. La prima: sono meno attraenti, hanno meno pubblico e più concorrenza, scontano la stanchezza loro e del pubblico (anch’esso dimissionario: i ragazzi stanno impegnandosi per liberarsi dalle piattaforme, a New York c’è persino un folto e crescente movimento di adolescenti che si aiuta a vicenda a tenersi alla larga da like, cuoricini, post: il Luddite Club).
La seconda: il gioco è diventato un lavoro. E, lo vediamo da mesi e in particolare in queste ultime settimane, dal lavoro vogliono disintossicarsi tutti: impiegati semplici, capi di Stato, personaggi pubblici. La Gen Z (i ventenni) che, riporta Business Insider, entro il 2025 rappresenterà il 27 per cento della popolazione attiva, non è più disposta a dedicare tutta la propria esistenza alla carriera: ha ereditato e fatto suo il precetto, di conio millennial, della Yolo Economy (You Only Live Once: si vive una volta sola), che invita a ridimensionare il negotium in favore dell’otium.
Il New York Times ha pubblicato ieri una lunga intervista a Emma Chamberlain, 21 anni, una delle prime star di YouTube, amatissima, pioniera di un modo molto particolare di raccontare la sua vita in video: ha detto che sta progressivamente lasciando le piattaforme, che si è sottoposta anche lei a una specie di dieta ferrea per starne alla larga il più possibile e adesso sta benissimo, vuole scoprire il mondo, e smetterla di usare il virtuale per scansare il reale. È quello che ha cantato Levante a Sanremo: «Vivo il digitale/ Vivo l’uomo e l’animale/ Vivo l’attimo che c’è/ Vivo per la mia liberazione».
Chamberlain ha cominciato a sedici anni: soffriva di depressione, amava il montaggio video, odiava i suoi coetanei che usavano i social per trasfigurare la realtà, mostrarsi bellissimi, magrissimi, splendenti. E allora ha fatto l’opposto: s’è mostrata, per anni, struccata, goffa, disordinata, annoiata dallo sfarzo e incantata dalle cose piccole e sghembe. Si filmava mentre preparava torte, spolverava, passava l’aspirapolvere e parlava, parlava, parlava. Trasformava la banalità in qualcosa di magico, scrive ora il New York Times.
Era pochi anni fa, ma sembrano passati decenni: spopolavano le serie TV, tutti guardavano Games of Thrones, eppure niente batteva Friends e The Office, e su Netflix Una mamma per amica batteva Stranger Things. I giornali parlavano di “non event tv": le persone avevano voglia di avventura, certo, ma più di tutto cercavano uno spettacolo in cui non succedeva niente di spettacolare, tutto era dialogo, chiacchiera, quotidianità. YouTube era, da una parte, il grande radicalizzatore (usava un algoritmo che proponeva agli utenti contenuti sempre più spinti ed estremi) e, dall’altra, lo spazio dove creator e influencer facevano sempre di più quello che, con successo, faceva Emma Chamberlain: decelerare, mostrarsi autentici e persino esserlo, autentici. Eppure, anche quello spettacolo così naturale e rassicurante è diventato presto un lavoro: il pubblico ci si è affezionato, ha preteso presenza fissa, soccorso, esempio. Così, quella depressione che Chamberlain aveva imparato a curare giocando su una piattaforma di contenuti video, è diventata uno stress insostenibile. La contropartita del successo.
Dice ora Chamberlain: «Tutto quello che faccio, deve essere perfetto. Devo trattare tutti perfettamente. Devo presentarmi bene tutto il tempo. E non si tratta di apparenza fisica ma comportamentale. Non mi interessa avere labbra perfette per Instagram, ma ho costantemente paura di non essere una persona perfetta perché sento che in ogni momento, ogni mio errore, potrebbe essere la fine. Ho visto persone venire distrutte su Internet. È un posto spaventoso in cui esistere». Ed ecco perché ora fa podcast, intervista celebrità per Vogue (l’ultima volta lo ha fatto per il Met Gala), produce la sua linea di caffè. E sogna di fare documentari. Continua a filmare la sua vita, ma non dentro casa: fuori. Viaggia. E non condivide quello che riprende: lo conserva. Si sottrae all’obbligo che le piattaforme impongono per non sparire, seppelliti dalla concorrenza, dai contenuti degli altri, dal caos, dalla disattenzione del pubblico; l’obbligo di caricare contenuti ogni giorno o almeno ogni settimana, lavorandoci sempre. Se c’è una cosa che la Gen Z chiede è una distribuzione più lasca degli oneri: non meno lavoro, ma meglio concentrato. Un tempo meno dilatato e più contratto.
Ferragni oscilla tra influencer e professoressa democratica, cerca affannosamente un pubblico nuovo, prova a conquistarsi il ceto medio riflessivo iscrivendo due signori del servizio pubblico a Instagram, spacciandola per innovazione (Instagram è già il passato, e soltanto sul palco di Sanremo si poteva non notarlo). Lo fa perché il suo engagement è in calo (scrive Rivista Studio che i suoi follower sono fermi da molto a 28 milioni, mentre Khaby Lame ne ha 234 milioni; durante la prima serata di Sanremo lei è stata citata in 55mila contenuti online, mentre Blanco in 150mila). Lo fa perché è cresciuta. Lo fa perché, Chamberlain lo dimostra, si nasce disintermediatori e poi, a un certo punto, si finisce corpi intermedi. Si vuole costruire un ponte. Impugnare un microfono. Intervistare gli altri, allontanare le telecamere dalla propria faccia, per quanto valga milioni. Il fondatore del Censis Giuseppe De Rita ha detto alla Stampa che i giovani ambiscono ai vertici e hanno dimenticato l’importanza delle posizioni intermedie. Ma è vero anche che rivogliono la mediazione, la tv, le pause. Desiderano il sipario. Forse. Speriamo. —