Corriere della Sera, 22 febbraio 2023
Intervista a Tananai
Gli ultimi saranno al massimo i quinti. La parabola sanremese di Tananai (nome d’arte di Alberto Cotta Ramusino, 27 anni) si discosta da quella evangelica: «Però ho quasi tenuto fede alla mia storia. Sono stato l’ultimo dei primi cinque. Ma non mi permetto di contestare Gesù, ho sbagliato io». L’ironia, oltre alla musica, è la cifra del suo modo di stare sul palco e nella vita.
Si è definito un cazzaro...
«In effetti è così. Non riesco a prendermi troppo sul serio, nella vita di tutti i giorni mi piace scherzare su tutto, faccio battute che fanno ridere solo me, twitto scemenze».
L’anno scorso a Sanremo con «Sesso occasionale» arrivò ultimo, ora quinto con «Tango». Era così scarso un anno fa?
«Non mi sentivo scarso, mi sentivo più inconsapevole, meno pronto, sono stato un filino più superficiale... anzi senza un filino... sono stato molto superficiale nella preparazione del Festival 2022. Nell’ultimo anno con le esperienze che ho accumulato ho capito che ci tengo a rispettare il mio pubblico e chi mi ascolta, cerco di prendere più seriamente il lavoro in sé. Ma non mi sento di colpo bravo».
Ha preso anche lezioni di canto per migliorare le stecche dell’anno scorso...
Ride. «Posso dirle una cosa? Prendevo lezioni anche prima eh... Solo che non mi applicavo abbastanza. Il vero anno da fuoriclasse l’ha passato il mio vocal coach Maurizio Zappatini; l’anno scorso gli dicevano: ma questo che lavoro fa? Adesso invece lo dipingono come un fenomeno. Lo devo ringraziare per avere continuato a lavorare con me anche dopo la figuraccia di Sesso occasionale».
Gli incontri da ricordare nel backstage di questo Festival?
«Troppi. Mi hanno fatto piacere tanti gesti. Ho incrociato Ranieri che mi salutato come se fossimo grandi amici; ho pensato: che figo si ricorda di me. Ci siamo abbracciati e abbiamo fatto due chiacchiere».
Chi altro?
«Appena sono sceso dal palco il mio manager mi ha chiesto dell’esibizione e io: sì figo, ma Bianconi dei Baustelle mi ha detto che gli piace il mio pezzo. E poi Ornella Vanoni che mi è passata di fianco e con quella sua voce mi ha sussurrato: tu mi piaci ragazzo, sei molto interessante...».
In duetto ha portato «Vorrei cantare come Biagio». È la sua massima aspirazione? Non è che Antonacci sia proprio un modello di bel canto...
«Chissenefrega. Avere una carriera come la sua è un’aspirazione. La canzone di Cristicchi è ironica, però per fare dell’ironia bisogna partire da un fondo di verità. E Biagio è un mito, mi affascina, il suo personaggio è sensuale come la sua musica».
Mai perso la testa come Blanco a Sanremo?
«Me lo sono quasi perso, stavo andando a dormire e mi son chiesto che cavolo stava succedendo. È un ragazzo, ha chiesto scusa e deve finire lì. A me da ragazzino capitava di prendermela soprattutto con me stesso, ero una testa calda, molto irrequieto, sono sempre stato il mio primo giudice inflessibile».
Studiava architettura e poi?
«Mi sono reso conto che non era la mia strada. Vedevo compagni di corso che vivevano per quello, o quasi; erano molto più interessati, motivati, a fuoco di me; sul cellulare avevano come sfondo il Moma o creazioni di Alvar Aalto, io tenevo la foto del deejay Flume. Diciamo che ho smesso per rispetto verso gli architetti...».
Papà medico con uno studio dentistico a Cusano Milanino, la mamma che lavora con lui e si occupa della gestione dello studio.
«Non so davvero come non siano usciti di testa in tutti questi anni, tutti i giorni insieme, a casa e al lavoro».
Già un doppio Sanremo alle spalle, ora il tour nei palazzetti da maggio, ma i suoi genitori cosa prevedevano per lei?
«La priorità per loro è sempre stata la voglia di vedermi soddisfatto, realizzato e felice. Ma si sono preoccupati eccome per la mia scelta. Da piccolo mi chiamavano martello pneumatico perché se avevo qualcosa in testa facevo di tutto per raggiungerla, continuavo a battere per quel traguardo. Con il tempo si sono resi conto che la mia priorità era la musica e ho la fortuna di avere genitori abbastanza sensibili per capire che se hai questo fuoco dentro non alimentarlo provocherebbe frustrazione. Quindi meglio mangiare pane e fagioli che essere triste a vita. Io poi sono un tipo molto sensibile, sento tanto la tristezza quanto la felicità, vivo le emozioni in modo intenso. Al di là di quello che può essere sembrato il Sanremo dell’anno scorso ho sempre cercato di fare musica con serietà, dedizione e passione. Capivano che non ero uno scappato di casa».
Ha detto che è un mammone...
«Ma certo, da buon italiano... voglio tanto, tanto bene a mia madre, è una grande donna, mi ha cresciuto con moltissimo affetto, è il mio esempio femminile».
Cosa le ha insegnato?
«La gentilezza. A trattare tutti nel modo più corretto e educato possibile».
E il papà?
«Mi ha trasmesso la passione per il bello. È sempre stato interessato all’arte figurativa e fin da piccoli andavamo a visitare tante città d’arte. Tu pensi: che rottura di palle i musei e invece poi capisci quanto è utile e bello».
La scemenza più grande che ha fatto?
«Ho l’imbarazzo della scelta, e molte è meglio se non le racconto. Diciamo la volta che ero a Valencia, sono uscito senza telefonino, poi ho conosciuto delle persone, sono stato con loro, mi sono perso, sono arrivato in una città vicina, ho dormito in stazione. Il giorno dopo con tanto tempo e tanta pazienza ho capito dove dovevo andare...».
Sembra di capire che abbia omesso i dettagli più interessanti... Una critica che l’ha ferita particolarmente?
«Non ero abituato alla pioggia di critiche che un’esposizione come quella di Sanremo si porta dietro. L’anno scorso mi hanno fatto molto male i tanti commenti che leggevo, non per i contenuti, ma soprattutto per la quantità di persone che mi stroncava, così arrabbiate solo perché avevo stonato».
Il primo regalo che si è fatto con il successo?
«Non ho particolari passioni materiali, non mi interessano né i vestiti né le macchine. L’unico lusso che mi sono concesso è una casa normale in affitto. Prima abitavo in una caverna senza porte e senza finestre, ora sto in un’abitazione che ha tutte le cose al suo posto».
Come era arrivato nella caverna?
«Era l’unico posto a Milano dove si spendeva poco di affitto, ma era un macello. Un loft diviso in quattro con amici nella mia stessa situazione. Le pareti di cartongesso separavano le camere, la tende facevano da porta, le finestre queste sconosciute».