il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2023
Confessioni di Steven Spielberg
Berlino. “Benvenuto al dio del cinema!” Davanti a Steven Spielberg si ritorna bambini. Ecco perché una voce le interpreta tutte elevandosi nella sala gremita in standing ovation tifando come allo stadio per il cineasta americano giunto alla 73ª Berlinale a ricevere l’Orso d’oro alla carriera. “L’onore di questo premio è speciale in questo momento della mia vita, perché mi porta a riflettere come quando ho perso mio padre e mia madre, lei esattamente sei anni fa oggi”. È un amore universale ma anche intimo, quasi personale, quello attribuito dalla platea della stampa per questo genio del cinema che più di chiunque ha segnato l’immaginario collettivo e individuale di chi ama la settima arte. Almeno da quel 1971 che lo vide esordire con Duel: da allora 34 lungometraggi, la vittoria di 4 Oscar, un Leone d’oro alla carriera e una miriade di riconoscimenti. Palpabile tra cronisti e critici presenti è la profonda gratitudine per un regista che non ha mai smesso di conquistare il cuore del pubblico, utilizzando il cinema per intercettare l’intelligenza emotiva, il sentimento popolare di intere generazioni in una costellazione di culture, lingue e identità diverse. In primis quella americana di cui continua a rivisitare la Storia e preservare la Memoria. Con The Fabelmans, il suo film autobiografico e finora il più personale, è candidato a plurimi Oscar, ma questo poco sembra importargli: il suo modo di vivere e “sentire” il cinema è rimasto immutato. “Nulla è cambiato da quando ero bambino e “pensavo cinematograficamente”: è la medesima natura, gli stessi sentimenti, il livello di eccitazione, la voglia di fare un buon film che mi spingono a fare il cinema. Queste emozioni sono rimaste vitali”. E dunque non stupisce se Spielberg ancora sa emozionarsi con le persone che incontra, empatizza col presente trasformandolo nella magia di un viaggio immaginifico. Tante le perle e i ricordi di cui fa partecipe gli astanti, tra le influenze dei maestri del suo passato, con John Ford a far da padrone (“la scena di The Fabelmans interpretata da Lynch nei panni di Ford è la più accurata di tutto il film, parola per parola è ciò che John Ford mi insegnò e mi ha segnato per sempre”), e gli aneddoti di famiglia (“mia madre mi ha sempre ripetuto di essere reattivo alla vita, a fare delle scelte con coraggio, anche le più bizzarre come quelle che faceva lei con noi”). Quella mamma, “meravigliosamente ritratta da Michelle (Williams, ndr)” è una presenza costante nel processo creativo di Spielberg, il suo conflitto tra arte e famiglia che equivaleva a vivere, le sue paure e fragilità. “Durante la pandemia ho provato per la prima volta la paura di invecchiare e di morire. Da lì ho capito era giunto il momento per The Fabelmans”. Ecco che il bimbo Steven è riemerso di colpo, del resto Truffaut gliel’aveva detto, “tu hai un cuore da bambino”. Un elemento di cui sembra andar fiero, anche quando affronta storie che più distanti dall’infanzia non potrebbero, come guerre, stragi, genocidi, biopic, mescolando e reinventando i grandi generi hollywoodiani. Incessante lavoratore, il suo presente si chiama Napoleon, miniserie per HBO in 7 puntate sulla (ben nota) sceneggiatura di Stanley Kubrick, l’altro Maestro da lui amatissimo. E il favoloso incantatore si è profuso anche in consigli per giovani aspiranti cineasti: “Imparate a riconoscere le storie interessanti e a come raccontarle. E se non siete capaci di scriverle, ingaggiate qualcuno che sappia sceneggiarle per voi. Ricordatevi che ogni scena deve avere un senso, così come ogni personaggio va curato nei dettagli. Spero questo vi aiuti a realizzare il vostro grande Sogno”.