il venerdì, 17 febbraio 2023
Intervista a Raffaele Minichiello - su "Kill me if you can" di Alex Infascelli
"Anche se per molti sembravo esserlo diventato, non mi sono mai considerato un eroe, ma l’esatto contrario. Ho sbagliato, mettendo in pericolo la vita di tante persone". Sono trascorsi oltre 50 anni. Raffaele Minichiello ne aveva quattordici quando si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti, e venti il 31 ottobre 1969. Giorno in cui mise in atto quello che sarebbe diventato il più lungo dirottamento della storia dell’aviazione: oltre 19 ore durante le quali, dopo essersi imbarcato con un fucile su un Boeing 707 della TWA in volo notturno da Los Angeles a San Francisco, prese in ostaggio passeggeri ed equipaggio, chiedendo di atterrare al Cairo. Causa rifornimento di carburante, l’aereo fece scalo a Denver, dove tutti furono lasciati scendere tranne i piloti e una hostess; poi a New York, quindi nel Maine e in Irlanda, per atterrare infine non al Cairo ma a Roma, dove il giovane fuggì su un’auto guidata da un poliziotto a cui a un certo punto intimò di fermare il veicolo per scappare nelle campagne. Rifugiatosi nel Santuario della Madonna del Divino Amore, fu riconosciuto da un prete che lo denunciò e lo fece arrestare. "Mia madre mi diceva sempre: in caso di bisogno, chiedi a un sacerdote. Vedi che succede a fidarsi", disse Minichiello dopo la cattura.
A ricordare oggi quell’incredibile avventura è il documentario di Alex Infascelli Kill Me If You Can. Ispirato al libro di Pier Luigi Vercesi Il marine (Mondadori), sarà nei cinema il 27, 28 febbraio e il 1° marzo, dopo essere stato presentato alla Festa del Cinema di Roma. "Si disse che dovevo andare a trovare la mia fidanzata a Napoli, ma non era vero", mi racconta Raffaele, o Ralph, come lo chiamano a Seattle dove ora vive. "La realtà è che volevo mettere in scena un gesto di protesta nei confronti dell’America. È vero, era il Paese che mi aveva accolto dopo il terremoto dell’Irpinia del 1962 che ci aveva lasciato senza casa. Ma una volta lì mio padre, che era anziano e non parlava inglese, non riuscì a trovare lavoro e così la mia adolescenza l’ho vissuta facendo la fame vera. Per questo a 18 anni chiesi ai miei il permesso di arruolarmi per andare in Vietnam. Ma dopo aver combattuto un anno, ed essere stato decorato, al mio ritorno mi sentii tradito".
E perché mai?"Scoprii che mancavano 200 dollari dalla mia paga di reduce, e quando protestai un colonnello mi disse che ero il solito italiano furbo".
A quel punto, ubriaco, lei entrò nello spaccio militare per prendersi ciò che le era stato tolto, ma fu arrestato. E sarebbe dovuto andare di fronte alla Corte marziale...
"Era una palese ingiustizia. La nazione che avevo difeso in Vietnam mi aveva voltato le spalle. Così decisi di fare un gesto eclatante, anche se non credevo che sarei mai riuscito a dirottare un aereo. All’inizio dissi che volevo atterrare al Cairo, ma era una scusa per arrivare a Roma. Sul volo, una volta fatti scendere i passeggeri, c’era un’atmosfera rilassata: ricordo che mi misi in prima classe a chiacchierare col comandante. A un certo punto dovetti andare in bagno, mi alzai dimenticando lì il fucile".
E come mai il comandante non lo impugnò prima che lei tornasse?
"Glielo chiesi. Mi disse: non sono un assassino. Ma credo avesse anche capito che io quel giorno non volevo ammazzare nessuno".
E in Vietnam, invece, aveva ucciso?
"Diciamo che ho sparato".
Il titolo del documentario è la frase, "prova a uccidermi", che lei portava scritta sull’elmetto.
"Sì, mentre sul fucile avevo scritto birth control (controllo delle nascite, ndr). Non avevo paura di nessuno: nei marines ti fanno il lavaggio del cervello. Però devo dire che non ci insegnavano solo a togliere la vita dei nemici, ma anche a rispettare quella dei civili".
Che ricordi ha della guerra?
"Belli e brutti. L’amicizia indimenticabile con i commilitoni, ma anche il momento terribile in cui venni evacuato perché stavo malissimo: intorno a me, in elicottero, c’erano solo sacche di cadaveri. Ma una cosa sul Vietnam ci tengo a dirla".
Cosa?
"Il sessanta per cento di ciò che è stato scritto sono bugie. Io ci sono stato, 13 mesi, e ho partecipato a 26 operazioni in prima linea: beh, non ho mai visto un soldato americano che torturava un civile o violentava una donna. Né l’ho mai sentito raccontare. La guerra è orribile da ambo le parti. Per me, oggi, non c’è nessuna differenza tra una madre ucraina o russa che piange il figlio morto".
Torniamo al dirottamento. Arrestato a Roma, lei fu processato e se la cavò con una condanna a tre anni e mezzo: ne scontò solo uno e mezzo.
"Quando uscii, a Melito Iripino mi accolsero con grandi onori. Ero diventato il simbolo dell’antiamericanismo".
La leggenda narra che la sua protesta abbia addirittura ispirato il personaggio di Rambo...
"Voglio ribadirlo: non avevo fatto nulla di eroico".
Nel film viene raccontata anche la sua vita, diciamo altrettanto rocambolesca dopo il dirottamento. Quando, negli anni 80, sua moglie morì durante il travaglio, progettò un attentato a un convegno di medici. Cosa la convinse a desistere?
"L’incontro con Dio. Un ragazzo mi regalò il Vangelo e leggendolo trovai il passo "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Capii così che dovevo perdonare. In fondo la mia storia dimostra che tutti hanno diritto di sbagliare e rialzarsi. Comunque credo nella Bibbia e non nelle religioni, che sono come i partiti politici e allontanano le persone da Dio".
Lei oggi è un cristiano evangelico. Crede che i suoi ostaggi l’abbiano perdonata?
"Nel 2009 incontrai Wenzel Williams, il secondo pilota, e la hostess Charlene Delmonico a una riunione organizzata dai marines. Ho chiesto loro perdono e ci siamo abbracciati".
Gli Stati Uniti hanno cercato di farla estradare, poi le hanno concesso la grazia, ma il suo fascicolo è stato secretato. Nel documentario si ipotizza che lei, che si è rifatto una vita a Seattle, sia stato a lungo un agente segreto al servizio degli Usa.
"Mi hanno riabilitato per via del mio servizio in Vietnam. Non ho fatto favori a nessuno e non ho mai tradito né la Costituzione italiana né quella americana. Non so perché il mio fascicolo è top secret. L’unico reato è stato quel dirottamento. Ma l’ho capito: lei non mi crede affatto, vero?".